martedì 7 maggio 2019

Atti 7,51-8,1 e Giovanni 6,30-35
Signore, dacci sempre questo pane!

Il venerdì prima della Pasqua, rappresenta l'apice della crisi rispetto alla vita di Gesù e all'esperienza dei discepoli: la sua morte cruenta e le sue sofferenze sulla croce sono un limite difficilmente superabile, forse paragonabile al vedersi morire fra le braccia una persona che amiamo. Questa esperienza ci segna profondamente e resta come dramma esistenziale, come paura della morte rispetto alla fragilità della vita percepita spesso come assoluto. Il racconto di Atti, circa il diacono Stefano, ci conferma che all'esperienza del venerdì, si è realmente affiancata, da subito, un'altra esperienza che è stata capace di ribaltare completamente la "crisi" in atto: "vedere e toccare il risorto", lo stare con Gesù vivo. Tutta la vita della prima comunità di discepoli è drasticamente segnata da questa realtà: il Signore è risorto - "Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio" -. È Gesù vivo il "volano" che riattiva la ricomprensione della storia passata, degli eventi presenti e in prospettiva la realtà che deve accadere in futuro.
Anche il discorso sul pane della vita muove dalla presenza del risorto nella vita reale dei primi discepoli. Il risorto rivela se stesso accompagnandosi con il segno della frazione del pane; con il dare il pane come segno di comunione con loro; rievocando sempre quella cena che anticipa il mistero della sua morte. Ecco allora il pane spezzato assume la forza del segno efficace! I giudei (tutti noi) chiedono un segno ... chiedono un segno fuori dalla "natura delle cose", Gesù ripropone un segno nella sua trasversalità ... È il segno della vicinanza di Yhwh, il segno di Dio Padre che si prende cura della vita del suo popolo, è il segno che porta alla nostra vita la qualità divina dell'eternità; aggiunge la vita del figlio: "Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!" È la continuità di questo segno, il procedere dal segno di Gesù, che plasma da sempre la vita dei discepoli: "Signore, dacci sempre questo pane".

lunedì 6 maggio 2019

Atti 6,8-15 e Giovanni 6,22-29
Diamoci da fare ... per la vita eterna!

Dopo la moltiplicazione del pane, e il cammino sulle acque, il capitolo sesto di Giovanni, a partire dalla localizzazione geografica, coerente con il tempo di Gesù, da inizio al lungo discorso sul "pane della vita". Dall'anno 20 dC, quando viene fondata dai romani la città di Tiberiade, il lago assume questo nuovo toponimo, ma questo ci permette anche di individuare il luogo della moltiplicazione del pane e del cammino sulle acque, che la tradizione tramanda, nello spazio compreso tra Tiberiade e Cafarnao. Ciò che Gesù ha compiuto appartiene alla vita reale della gente che abita la riva occidentale del lago. È infatti questa la terra segnata da gran parte della predicazione in Galilea, da gran parte delle narrazioni dei vangeli. Anche il discorso a Cafarnao non sfugge alla logica del vissuto di Gesù. Il Signore parla del segno del pane, a delle persone che il pane lo hanno mangiato ("... voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati")È proprio perché lo hanno mangiato possono cercare di comprendere lo straordinario di cui sono resi partecipi. Ecco allora, che il lungo discorso sul "pane della vita" non possiamo semplicemente licenziarlo come una omelia o riflessione post pasquale, alternativa  all'ultima cena (narrazione assente in Giovanni). Un contenuto esplicito delle parole di Gesù, credo debba essere ritenuto la relazione tra il pane e la vita. Tra il mangiare quel pane che lui ha dato e la vita come dono del Padre: "... il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà".
Giovanni mette in relazione il cercare Gesù da parte della gente, "voi mi cercate", con il "darsi da fare ... per compiere le opere di Dio". L'opera di Dio è l'agire del Figlio, il suo dare la vita attraverso la sua stessa vita. Gesù è stato mandato dal Padre proprio per questo, per mettere la sua vita nella nostra vita.

domenica 5 maggio 2019

Atti 5,27-41 / Salmo 29 / Apocalisse 5,11-14 / Giovanni 21,1-19
Signore, tu sai che ti voglio bene!

La pagina del Vangelo di questa domenica (Gv 21) è la più bella di tutto il nuovo testamento! In realtà ci dà testimonianza diretta dell'unico fatto indispensabile per la nostra fede: Gesù è risorto, è vivo, e non è poi così lontano da noi.
Gesù stesso riannoda le vicende passate, e sulla spiaggia del lago di Tiberiade, riparte dai segni della sua vita con i discepoli, quei segni che testimoniano la sua storicità: la pesca abbondantissima come in quei primi giorni a Cafarnao, quando non conoscendo nessuno si mise a parlare con Simone, Andrea, E i figli di Zebedeo; ripropone la sua presenza che dava entusiasmo e sicurezza - tutti ti cercano -; riparte dal pane, dal pesce arrostito, cibi tante volte condivisi e segno di quel donarsi - si avvicinò e li diverse a loro - e della sua presenza nella cena precedente la passione. L'apparizione sul lago non è quella di un fantasma che ci viene incontro, ma è proprio Lui, a dirci come la risurrezione è parte della realtà e non dei sogni. Non è neppure una realtà virtuale creata attraverso chissà quali applicazioni ... La terza volta che Gesù appare è per dirci come fare esperienza della risurrezione!
Ecco che se ci metteremo a cercare le tracce del risorto, indagando a fondo nel sepolcro, scannerizzando la sindone, analizzando grumi di sangue e reperti vari ... Cosa arriveremo a trovare? Dati solo dati ma non certezze definitive, assolute ...
Ma il risorto per dare sé stesso per condividere la di Lui esistenza ci ha lasciato un altro modo, altri indizio, una strada umanamente vincente ...
È il modo e la strada che Gesù ha sperimento con Pietro ... È la strada dell'esperienza dell'amore. La Risurrezione si rende evidente e concreta nell'amore.
Gesù chiede a Pietro una prima volta: "mi ami", usando un verbo che significa amore pieno totale  ... Pietro con timidezza risponde signore "ti voglio bene ..."
Gesù chiede per la seconda volta: "mi ami"; ora Pietro è quasi disturbato, e anche un po' vergognoso per cui risponde: "si, ti voglio bene ..."
Alla terza vota, proprio perché Gesù ama Pietro con un amore vero, quello che è solo di Dio, chiede a Pietro: "mi vuoi bene ..."; perché l'amore vero si abbassa a comprendere l'amore dell'amato, e Pietro si butta, si lancia in questa possibilità di amare Gesù.
Per fare esperienza della Risurrezione, per credere in Gesù bisogna almeno volergli bene. Se gli voglio bene, arriverò anche ad amarlo ... Ma questo cammino è la vita cristiana, la vita da discepolo ... La vita da testimone ...

sabato 4 maggio 2019

Atti 6,1-7 e Giovanni 6,16-21
Sono io, non abbiate paura!

Il capitolo sesto di Giovanni, dopo il segno della moltiplicazione dei pani e dei pesci, e prima del lungo discorso sul pane della vita, colloca il racconto - tradizione comune a tutti i sinottici - di Gesù che cammina sul lago. Il capitolo sesto di Giovanni è ritenuto, unanimemente, una aggiunta redazionale, e quindi rappresenta la sintesi di fatti originari, parole del Signore e riflessioni comunitarie successive, quelle che chiamiamo post-pasquali. Questo per farci cogliere il Vangelo di oggi, non come qualcosa di strano, ma come il modo di percepire attraverso la fede la presenza del risorto. "Sono io, non abbiate paura!" Possono infatti adattassi anche alla manifestazione del risorto agli apostoli dopo la passione e morte. Ecco perché dico che questo brano è stato riletto in chiave pasquale, quasi ad anticipare il segno della risurrezione, presenza reale come il segno stesso del pane. Il risorto non è un fantasma di cui avere paura, non è un morto che cammina, ma è il vivente, è colui che vi accompagna nell'attraversare con fatica la realtà quotidiana. Ma è proprio con Gesù che raggiungiamo la destinazione a cui siamo diretti. Gesù risorto ci conduce alla meta.
Questo racconto, non è quindi solo il segno della potenza sovrannaturale del Signore; ovvero un miracolo ... La comunità di Giovanni percepisce Gesù come il Signore che non cessa di accompagnare e condurre chi crede in lui. È questa infatti la condizione originaria della comunità dei discepoli, un insieme di persone con origine e tradizioni religiose diverse (ebrei, greci, ecc...) che credono in Gesù come il risorto, come colui la cui vita nuova propone una meta nuova al destino umano: la risurrezione ci conduce al Padre. Ecco la sana nostalgia dell'eternità che custodiamo in noi.

venerdì 3 maggio 2019

1 Corinzi 15,1-8 e Giovanni 14,6-14
Festa dei Santi Apostoli Filippo e Giacomo
Chiedete nel mio nome ...

Mai nei vangeli, Gesù si è espresso così esplicitamente, circa il riferimento a lui per "chiedere" ... Nella nostra mentalità la richiesta supplisce a una sorta di insufficienza rispetto alla quale si ricerca chi è nella condizione di poterla supportare; chi può determinare le condizioni della sua soddisfazione. Si chiede per ottenere ...
Ma il "chiedete nel mio nome", da parte di Gesù, apre a considerazioni ben diverse dalle nostre spicciole richieste spesso legate alle fatiche della vita. Per capire questo chiedere, occorre fissare che cosa è stato chiesto a Gesù. Una prima richiesta è di Tommaso: "Signore non sappiamo dove te ne vai, come possiamo conoscere la via?"; e la seconda richiesta è di Filippo: "Signore, mostraci il Padre e ci basta".
Cosa esprime questo "chiedere"? A mio avviso tradiscono il senso profondo delle nostre domande di senso: Chi siamo? Perché esistiamo? Dove andiamo?
Chiedere nel suo nome, è chiedere prima di tutto a Lui, porsi in una relazione esclusiva con il maestro, con Gesù. Perché solo lui, è la risposta alla domanda di senso che noi stessi siamo e manifestiamo. La risposta alla domanda di senso è "Filippo, chi ha visto me, ha visto il Padre". Ecco che il cammino della vita del discepolo, rappresenta lo spazio di senso in cui l'opera (agire/volontà) del Padre, ci conduce passo dopo passo alla casa del Padre. Questo non è un senso funebre dell'esistenza, ma la rivelazione del destino di eternità, e del collocare la nostra stessa vita in Cristo in quella relazione figliale che il maestro ha con il Padre. Per Gesù tutto è "vado al Padre", anche per noi tutto deve diventare "andiamo al Padre". Se non fossimo così intrisi di secolarismo, non avremo alcun timore!

giovedì 2 maggio 2019

Atti 5,27-33 e Giovanni 3,31-36
Chi crede nel Figlio?

"Il Dio dei nostri Padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce." Queste parole di Pietro risuonano come una accusa, insieme a una rivelazione, che pone tutti di fronte a una sconvolgente realtà: se Gesù è risorto, cosa succede ...; che cosa vuol dire ...; che cosa diviene la fede dei padri ... il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, quel Dio invocato col non-nome Yhwh?
Effettivamente i primi passi della comunità di Gerusalemme in un certo modo propongono le cause e la situazione che è dell'origine dell'esperienza Cristiana, una origine che come tale va collocata diversi secoli più tardi.
Anche il Vangelo, nella testimonianza a distanza che il Battista fa di Gesù, in un certo modo propone la consapevolezza profetica di Israele, la fede del popolo che chiede a Giovanni il battesimo e vuole immergersi nel rinnovamento della vita, di fronte all'ostinazione dei detentori del potere religioso, agli schiavi del rito e della Legge.
Dice Giovanni Battista: "chi è stato inviato (Gesù) dice le parole di Dio" ... "e non ha misura dà lo Spirito". Ecco la chiave di lettura della risurrezione: essa non è un semplice avvenimento, come non lo è la croce; ma la vita stessa di Gesù, la sua passione, morte e risurrezione rappresentano la realtà da cui riemerge la creazione stessa, tutto riprende origine dalla risurrezione, tutto è abitato dallo Spirito; tutto è condotto dallo Spirito, nella libertà al compimento cioè: "chi crede nel Figlio ha la vita eterna". Le conseguenze della risurrezione sono la vita cristiana (l'esperienza concreta della vita) come vita nuova: "le cose vecchie sono passate, non ve ne accorgete!" Chi se ne accorge, accoglie la testimonianza di colui che il padre ha mandato; vera appartenenza e atto di fede.

mercoledì 1 maggio 2019

Genesi 1,26-2,3 e Matteo 13,54-58
San Giuseppe lavoratore (memoria facoltativa)
Rendi salda, Signore, l’opera delle nostre mani.

Appena Gesù arriva a Nazareth, i suoi compaesani, esprimono immediatamente un giudizio su di lui a partire da ciò che aveva fatto: "insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi?"
L'agire di Gesù, provocava meraviglia e stupore, oltre che per lo "straordinario" per il rimando di senso e significato. L'evangelista Matteo riveste il clamore popolare dandovi voce come richiesta di senso. D'altronde le domande della gente tradiscono la provocazione che Gesù rappresenta:
- Chi è il padre di Gesù?
- Perché compie segni e miracoli?
- In che modo c'entra Maria in un mistero così grande?
- Quale relazione con tutti noi?
Gesù nel suo agire, nel suo operare mostra oltre alla potenza che è in lui, oltre al compiere una buona azione, mostra, rivela e condivide la propria identità. Nel suo agire cerca e crea comunione. la comunione diviene fonte di relazione e di appartenenza. Quando la la gente, e ciascuno di noi, si misura con Lui principalmente col giudicare entra nell'esperienza della "durezza" che è causa di opacità e di limite rispetto alla possibilità dell'agire di Dio attraverso di noi. 
Ogni agire, pure il nostro è spazio in cui si incorre nel giudizio. Il giudizio può essere un arma di distruzione, come accade a Nazareth; esso è un modo di sopprimere il senso profetico, che risiede nell'agire umano: l'agire dell'uomo può essere profezia dell'opera del creatore. Ecco perché nel ritornello del Salmo, oggi diciamo: "Rendi salda, Signore, l’opera delle nostre mani".