Efesini 4,32-5,8 e Luca 13,10-17
Il
popolo di Israele durante l'esodo dall'Egitto e prima di entrare nella
terra di Canaa - in quei "quaranta" anni di vita ne deserto, che
corrispondono al periodo in cui si forma l'identità di popolo a partire
dalle varie esperienze tribali (didici tribù) -, riceve da Mose una
Legge, i dieci comandamenti, che la scrittura dice, essere la Legge che
per la vita; una Legge che forma il popolo e lo rende diverso da tutti
gli altri popoli; una Legge di libertà. Quando la struttura religiosa
(Scribi, Farisei, sacerdoti) si impadronisce della Legge, e la trasforma
in un precetto; la fede diventa una religione; il culto diventa
clericalismo e il rito si trasforma in una gabbia di rubriche
procedurali.
Questo è accaduto nell'antico Israele, ma questo
accade sempre ogni volta che al mistero di un Dio che si rivela si
contrappone l'ideologia o meglio l'io dell'uomo.
Nel Vangelo
di oggi è chiara ed evidente la gioia di tutti coloro che Gesù libera
dalla schiavitù della Legge, fatta di prescrizioni e divieti, che per
"diciotto anni" ci ha tenuti schiavi e piegati sotto un giogo che
nessuno è in grado di portare. Gesù è veramente il liberatore, colui che
spezza il gioco del precetto e ci restituisce la gioia del sabato,
stare con Dio come figli, guardando negli occhi il nostro padre del
cielo.
La libertà corrisponde alla identità di essere figli,
come quella donna piegata che attraverso Gesù ritrova la propria
identità e libertà: essa è figlia di Abramo!
Essere liberi
significa restituire alla fede lo spazio che la religione le ha
usurpato; significa drizzare la schiena piegata da troppo
tradizionalismo, e da convenzioni utili solo a legarci a una mangiatoia
che mai potrà saziare il desiderio di vita e di amore che custodiamo
nella nostra carne.
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