mercoledì 30 giugno 2021

Una promessa molteplice

Genesi 21,5.8-20 e Matteo 8,28-34

Ismaele e Isacco, due figli di Abramo sintesi di due storie che si intrecciano ma che appartengono alla medesima promessa. Così come le due storie, quella della salvezza e quella universale, non sono estranee o contrapposte tra loro, ma quella della salvezza è a servizio di quella universale. La storia di Hagar ci ha detto chiaramente che Dio è ben presente nella storia di ogni uomo e di ogni donna, per quanto lontani possano essere, ma se sceglie per sé un popolo, tutto questo Egli lo fa per rendere possibile il suo manifestarsi in modo corrispondente alle sue intenzioni di ricondurre l’umanità alla sua vera vocazione alla vita. La scelta di un popolo particolare non è segno di privilegio e, quindi, di relativa esclusione degli altri, ma vuole costituire un segno che aiuti la storia profana a recuperare il vero senso dell’abitare questo mondo e questa terra. La storia dei credenti, di chi vive in obbedienza alla Parola di Dio ha la grande funzione di collocarsi di fronte alla storia profana come punto di luce, perché la storia dell’umanità intera ritrovi quell’orientamento, che conduca a costruire ed a tracciare sentieri di pace e di convivenza fraterna tra tutti i popoli.

martedì 29 giugno 2021

Ho combattuto la buona battaglia ...

Atti 12,1-11; 2Tim 4,6-8.17-18 e Matteo 16,13-19

Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo


Per Paolo, nella seconda lettera a Timoteo è una affermazione certa, per noi può essere una domanda articolata e profonda.
Ho combattuto la buona battaglia? Per Paolo, è fondamentale combattere la buona battaglia della vita, ma cosa significa? Paolo pensa la battaglia come l'impegno del discepolo in una esistenza giusta, in lotta con le tenebre del male. Non ha caso Paolo ci lascia tutta una serie di avversità che ha affrontato per amore di Cristo. La battaglia è la quotidiana esperienza di trasformare le nostre fragilità e debolezze in una occasione di Grazia. La battaglia implica sacrificio, chiede il superamento di noi stessi; la battaglia è il quotidiano confronto tra vangelo e realtà, ma è pur sempre una battaglia combattuta con le armi del Signore: la bontà, la mitezza, la disponibilità la misericordia e il perdono.
Ho terminato la corsa? E Paolo sa bene che ho conquistato il premio della sua "fatica", un premio che non è una semplice gratificazione ma è quella unione intima con il Signore che riempie ogni altro sentimento e amore.
Ho conservato la fede? Paolo ci dà una chiara testimonianza di una perseveranza nel tenere viva e accesa la propria fede, una fede che nasce e si alimento sulla Parola di Gesù.
La nostra buona battaglia, la corsa, la fede, sono allora una necessità, se vogliamo con Gesù, affrontare il nostro tempo, e usare della nostra vita per dare gloria al Signore. Per questo non sarà mai una nostra battaglia, ma un agire e lottare per il regno di Dio, non sarà mai solo, affaticamento, ma sempre percorrere, con protagonismo le strade dell'uomo; non sarà mai una custodia di una rivelazione ma la trasfigurazione della nostra vita in forza della Parola di Cristo.

lunedì 28 giugno 2021

Genesi 18,16-33 e Matteo 8,18-22

La preghiera di Abramo tra peccatori e giusti

Ci sarebbe molto da dire circa il peccato di Sodoma e di Gomorra, che attraverso una lettura e uno studio approfondito del testo, supera la convinzione tradizionale acquisita circa il peccato di sodomia. Ma rileggendo il testo si giunge a una evidenza che va oltre  anche all'esperienza di intercessione nei confronti dei giusti e il legittimo giudizio per delle città "il cui grido è troppo grande e il peccato è molto grave".

Cosa c'è al centro di questo brano di Genesi? 

Scrive papa Benedetto XVI: "Abramo non chiede a Dio una cosa contraria alla sua essenza, bussa alla porta del cuore di Dio conoscendone la vera volontà. Certo la distruzione di Sodoma doveva fermare il male presente nella città, ma Abramo sa che Dio ha altri modi e altri mezzi per mettere argini alla diffusione del male. È il perdono che interrompe la spirale del peccato, e Abramo, nel suo dialogo con Dio, si appella esattamente a questo. E quando il Signore accetta di perdonare la città se vi troverà i cinquanta giusti, la sua preghiera di intercessione comincia a scendere verso gli abissi della misericordia divina". È questa la potenza della preghiera. Perché attraverso l’intercessione, la preghiera a Dio per la salvezza degli altri, si manifesta e si esprime il desiderio di salvezza che Dio nutre sempre verso l’uomo peccatore; il suo desiderio è sempre quello di perdonare, salvare, dare vita, trasformare il male in bene”.

domenica 27 giugno 2021

Quotidianità con il risorto!

Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2 Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

 

Non solo miracoli e segni, non solo discorsi e insegnamenti. I vangeli, nel proporci la narrazione della persona di Gesù, hanno comunque una grande cura nel raccontare la quotidianità della sua vita; un poco per volta scopriamo la sua vita di tutti i giorni fatta di relazioni, di incontri, di umanità!

E così come, il toccare Gesù, l'essere toccati da Lui, corrisponde anche a un lasciarsi toccare il cuore. È un mettere completamente in relazione la propria umanità, la propria persona con la sua..

Ed ecco che Gesù si gira, si avvicina, si affaccia al dolore: “non temere, soltanto abbi fede”. Giunti alla casa, Gesù prende il padre e la madre con sé; prende con sé anche i suoi tre discepoli preferiti, li mette alla scuola dell’esistenza. Non spiega loro perché si muore a dodici anni, o perché esiste il dolore, ma li porta con sé nel corpo a corpo con l'ultima nemica: la morte: «Prese la mano della bambina».

Bellissima immagine: Dio e una bambina, mano nella mano. Non era lecito per la legge ebraica toccare un morto, si diventava impuri, ma Gesù profuma di libertà e di vita. E ci insegna che bisogna toccare la disperazione delle persone per poterle rialzare.

"Talità kum". Bambina alzati.

Ecco descritti come i sentimenti e le situazioni di vita di un padre la cui figlia è gravemente malata, in fin di vita, entrano in contatto con i sentimenti e la persona di Gesù. E a seguire una donna umiliata, da tanti raggiri, ormai stanca di chiedere ancora consulti ed aiuti, tenta furtivamente di garantirsi la guarigione, ma quel toccare il Signore è come una accusa: "non fai nulla per me ..." 

Di fronte a questa vita quotidiana, il lasciarsi toccare di Gesù è volersi coinvolgere.

Tutto ciò supera il fare un gesto straordinario; ma è un toccare in profondità, è un toccare il cuore di un padre disperato, è il toccare il cuore di una donna frustrata, è il toccare il nostro cuore e generare un affidamento a Lui che diviene progressivamente fede.

La nostra vita quotidiana è il luogo della relazione con il Signore.

È la quotidianità lo spazio nel quale nell'incontrare Gesù, la fede, ben lungi da un ragionamento o da una adesione formale, diviene condizione di salvezza: "desidero essere salvato dall'amore di Gesù".

È in questo ordine di esperienza che è possibile il cambiamento, la conversione della vita; proprio perché la relazione con il Signore, l'incontro con lui tocca la mia umanità, se mi lascio toccare ... 

Per noi oggi il toccare di Gesù, il lasciarci toccare, e il volerlo toccare è riferito al Gesù vivo, risorto e glorioso.

È il risorto che entra in relazione con la nostra quotidianità, non un ricordo di altri tempi. È il risorto che tocca a nostra umanità, che ci tocca nel profondo, non si tratta di gesti scaramantici o rituali che invocano una salvezza: noi oggi siamo toccati dal risorto cioè dalla salvezza vera.

sabato 26 giugno 2021

Mamre: accoglienza e promessa.

Genesi 18,1-15 e Matteo 8,5-17

Il racconto inizia con quell'ospitalità di Abramo che inconsapevole accoglie Dio stesso che gli si manifesta. È una situazione tipica del deserto nella stagione più calda ... Quasi a rassicurarci che la quotidianità è lo spazio preferito da Dio per rivelare le sue "promesse". Di questo brano mi piace sottolineare l'inadeguatezza di Abramo e di Sara, una inadeguatezza che si è via via generata nel tempo, negli anni in cui la delusione e l'amarezza si sono in un certo modo smussate fino a divenire quella sottile ironia che, la descrizione (della coppia Abramo e Sara) dell'autore di genesi, sottintende: "Abramo e Sara erano vecchi, avanti negli anni; era cessato a Sara ciò che avviene regolarmente alle donne. Allora Sara rise dentro di sé e disse: «Avvizzita come sono, dovrei provare il piacere, mentre il mio signore è vecchio!".

Ma è proprio questo ciò che la promessa vuole affermare nella nostra vita: il superamento dei nostri limiti, per inaugurare un tempo di grazia e il tempo della fedeltà di Dio verso di noi. Il figlio che nascerà indipendentemente dalla sfiducia dei due patriarchi, indipendentemente dalla inadeguatezza dovuta alla sopraggiunta vecchiaia è un segno; ma è soprattutto la possibilità di aprirci al mistero di un amore, quello di Dio, che ci pervade e che porta a compimento realmente ogni nostro desiderio più radicato e soprattutto la nostra vocazione, ovvero la nostra chiamata a realizzare le grandi opere di Dio.

Anche io, ora che sono vecchio e celibe, mi accorgo con stupore di aver scoperto la paternità come dono di Dio! È bellissima ed è fonte di gioia e di pienezza, come anche condizione necessaria per qualsiasi fecondità!

venerdì 25 giugno 2021

La concretezza della promessa

Genesi 17,1.9-10.15-22 e Matteo 8,1-4


La promessa fatta ad Abramo, si focalizza sulla terra, la fecondità e la discendenza. Per un nomade errante del deserto è un vero stravolgimento. Come è pensabile affidarsi a una promessa così diversa da tutto ciò che fino ad allora si è vissuto?
La terra percorsa non è mai entrata nel possesso, la fecondità si scontra con la realtà dura della vecchiaia e della sterilità; la discendenza numerosa trova un riscontro limitato nell'entità del piccolo clan famigliare. Siamo di fronte a un vero atto di fede! Una vera disponibilità allo stupore di fronte a una proposta che non solo impegna Dio, ma che impegna chi la accoglie a non indietreggiare, a non dubitare anche quando tutto sembra ben lontano da quanto promesso. Così Abramo e Sara sono chiamati a una nuova condizione, il cambiamento dei loro nomi i loro segna l’inizio di un tempo nuovo, quello del compimento delle promesse. Anche a ciascuno di noi è chiesto di entrare nella promessa di Dio; la terra è lo spazio della nostra esistenza nella quale il possesso significa pienezza della vocazione ricevuta e il suo portarla a compimento; è lo spazio esistenziale. Fecondità è la disponibilità a lasciare agire lo Spirito di Dio in noi, essere vivi della grazia che salva. La discendenza è l'appartenenza a un popolo numeroso, il popolo dei figli di Dio, che si genera nella rinnovata fraternità umana. 


giovedì 24 giugno 2021

Secondo le promesse ...

Isaia 49,1-6; Atti 13,22-26 e Giovanni 1,57.66-80

Natività di Giovanni Battista


La storia umana è anche la storia di Dio. C'è un grande fraintendimento nel nostro modo di percepire questo inevitabile intreccio che rappresenta il tempo e il suo divenire. Non siamo di fronte a due linee parallele che mai si incontreranno e neppure a due binari uniti a intervalli da traversine. La storia di Zaccaria ed Elisabetta, come anche quella di Giovanni Battista, le loro personali vicende sono anche Il tempo di Dio. È il tempo concreto in cui le Promesse rivelate anche nei profeti trovano realizzazione. Ma non è ingerenza, non è una violazione della libertà dell'uno e dell'altro; questo è vero, se la storia rappresenta il divenire positivo della piena realizzazione della verità. Quando in un'ottica di autonomia, invece, Dio è percepito come un possibile antagonista, oppure come un ingiustificato ingerente nella libertà ed emancipazione dell'uomo, la frattura è tale che ciò che rappresenta il sacro divine inevitabilmente parte avversa. È questo lo scontro culturale che spesso si consuma all'interno del nostro mondo occidentale. Ma d'altronde, quando l'autonomia si prefigura come autosufficienza delle istituzioni, ecco che non c'è più spazio per il mistero. Il cristianesimo invece nell'evolversi della storia umana è erede delle stesse promesse fatte al nostro padre Abramo e poi ai profeti, al suo popolo Israele ecc... Il cristiano vive compreso nel mistero di Dio nel tempo della fede e delle Promesse, che trovano costantemente manifestazione nelle vicende personali, come anche nelle nostre. Siamo di fronte a un modo differente di percepire la realtà ... Di questo non possiamo scandalizzarci. Però quanto è consolante per tutti noi vivere nella stessa promessa di Abramo, il quale poté alzare lo sguardo al cielo e contarvi le stelle. In quelle stelle vide la promessa della sua discendenza, vide anche noi. Un vedere che ci coinvolge totalmente e che chiede la nostra responsabilità - che non può mai essere partigiana -,  in questo cammino nel tempo, cioè nel portare a pienezza le promesse stesse; è questo guardare il cielo che ci permette di vivere meglio l'essere nella terra.


mercoledì 23 giugno 2021

"Che cosa mi darai?"

Genesi 15,1-12.17-18 e Matteo 7,15-20


Alle parole generose di Dio, Abramo risponde con scetticismo: “che mi darai”?, come a dire: “Che vuoi darmi, Signore”? Probabilmente egli aveva inteso che Dio parlasse di una ricompensa fatta di beni materiali. Per questo la sua replica è sconsolata, infatti Abramo era già molto ricco e non desiderava certo altre ricchezze. Per di più la sua vita si avvicinava alla vecchiaia e quei beni a chi sarebbero rimasti? Nella risposta di Abramo si sente tutta la frustrazione di un uomo senza eredi, senza discendenza e fecondità. Si avverte il dolore dell’impotenza di uno il cui nome è destinato a scomparire per sempre. Abramo risponde con estrema concretezza alla parola munifica di Dio, mettendogli davanti la realtà: chi erediterà ogni mia cosa sarà uno schiavo straniero adottato.
“Non costui sarà il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede (…) guarda in cielo e conta le stelle (…) tale sarà la tua discendenza (…) e Abramo credette e ciò gli fu accreditato come giustizia”(vv. 4-6).
Dio fa una Promessa ad Abramo: tu avrai un discendenza in questo paese dove i tuoi figli vivranno nel diritto e nella giustizia. Questo è il volto del Dio dell’Alleanza: un Dio che riconosce ad ogni straniero il dono di entrare e restare nel diritto e nella libertà, nel presente e nel futuro; un Dio che legittima e custodisce il diritto a sognare e a credere che tutto ciò che Egli ha promesso sicuramente avverrà. La storia di Abramo esprime il bene primario dell’alleanza con Dio, senza la quale egli non avrebbe avuto né presente, né futuro.

martedì 22 giugno 2021

Un cuore e una promessa

Genesi 13,2.5-18 e Matteo 7,6.12-14


Tratto dal testo di Carlo M. Martini “Abramo nostro padre nella fede".
"Abramo poteva pretendere molte cose da Lot. Lot era il piccolo orfano che Abramo aveva adottato, portato su con amore, curato, fatto crescere, forse gli ha insegnato lui l’arte della pastorizia, e quindi, se era diventato ricco, probabilmente lo doveva alla protezione, all’interesse, all’insegnamento di Abramo. Abramo poteva aspettarsi da Lot soggezione, umiltà, accettazione, sottomissione. Invece Abramo non solo lo tratta come suo pari, ciò che già colpisce, ma lo tratta come un fratello, non come un nipote di cui lui si è occupato gratuitamente e che dovrebbe cedergli, perché gli deve tutto, non dovrebbe disturbare i suoi pascoli, come sarebbe stato giusto se Abramo avesse voluto insistere sul suo diritto. No, lo tratta come un fratello, con cui non bisogna litigare, ma cercare un accordo; anzi, cosa inaudita, Io tratta come se fosse il primogenito. Abramo avrebbe potuto dire: cerchiamo di dividere la terra da fratelli, in maniera equa, giusta, tenendo conto che hai avuto già molto da me, tutte le cose che hai le devi a me; quindi adesso accontentati di questo. Questo sarebbe stato giusto tra fratelli. Abramo invece gli dà il diritto di primogenito, quasi di capofamiglia: “va’ dove vuoi; non sta forse davanti a te tutto il paese?”; io sceglierò quello che tu non vuoi. Ci sorprende questa eccezionale liberalità, umiltà, distacco di Abramo. Ma quello che più sorprende è che Abramo accetta la scelta di Lot e si stabilisce nel paese di Canaan. Abramo non fa una grinza, accetta liberamente ciò che l’altro rifiuta e lo prende con estrema tranquillità. Questo sorprende al massimo; la sua non era una finta, non era quell’arte abilissima di recuperare il meglio facendo il generoso; era espressione sincera della semplicità del suo cuore, cosa così rara tra gli uomini. È in questo cuore fo Abramo che Dio radica la sua promessa. 

lunedì 21 giugno 2021

Un viaggio in uscita

Genesi 12,1-9 e Matteo 7,1-5


Iniziando la lettura del capitolo 12 di genesi, ci affacciamo alla storia di Abram, a lui Dio chiede di assumersi la responsabilità della propria vita: non saranno più altri a condurlo. Ma sarà lui che dovrà seguire la chiamata che Yhwh gli rivolge nel cuore. Rispondere alla propria vocazione significa, per Abram e anche per noi, accettare di uscire dal nostro essere bambini per introdurci nell’avventura della vita – avventura in cui Dio, sia si pone come garante di nulla, e non si sostituisce mai a noi, ma ha un unico obiettivo: ci vuole fare crescere. Uscire significa incamminarsi verso il futuro, a partire da ciò che siamo, e da quanto c'è ora. Ecco allora che ciascuno di noi deve guardare ad Abram come un modello di vita, e pensare di essere chiamato da Dio a vivere la stessa traiettoria di uscita dalla “casa paterna” per attuare la propria vocazione, per esercitare la propria fecondità nel mondo. È necessario uscire dal nido, è necessario uscire nel mondo per dare concretezza alla personale chiamata. Uscire dal cerchio ristretto che ci ha generato ma che non è lo spazio della nostra esistenza e che non permetterà mai alla nostra vita di sbocciare nella sua vera fecondità. Ciò che accompagna il viaggio in uscita di Abram, non è solo il desiderio di avventura, non solo l'atrattiva per un mondo nuovo e migliore, ma tutto si unisce al mistero del Dio accanto, con cui Abram intesse una relazione intensa e di amicizia. È questa relazione intima che porta Abram a maturare l'affidamento e l'abbandono, che è la fede.

domenica 20 giugno 2021

Tempesta di salvezza!

Gb 38,1.8-11; Sal 106; 2 Cor 5,14-17; Mc 4,35-41

 

Il mare di Galilea, un laghetto di piccole proporzioni per girarci intorno a piedi si percorrono 53 km .... Se pensiamo al nostro lago di Garda occorre camminare per 143 km, è un quindi un piccolo laghetto ... Ma per quella terra e per i tempi di Gesù è un vero e proprio mare, dove si incrociano popolazioni, culture, storie e la vita di tutti i giorni.

Un lago solcato da barche per la pesca e per il trasporto di merci, un lago che permette gli scambi e il mercato, e dà lavoro a tanta gente.

Quel lago intorno, conserva tuttora i tratti dei monti e delle colline che anche Gesù ha visto, perché non dobbiamo dimenticarlo, questo laghetto è lo spazio privilegiato da Gesù per annunciare il Regno di Dio ... Intorno a quel lago, Gesù, ha vissuto circa tre anni.

Nella mia esperienza della Galilea quelle rive le ho percorse camminando attorno, quando il lago nella sua calma rappresenta uno spazio di pace e di ristoro. Quelle acque sono un vero refrigerio nel caldo dei mesi estivi dove le temperature al sole raggiungono anche i 35, 40 gradi. Quel lago, scendendo dalle colline attorno, è di un azzurro cielo, quando tutto intorno è arso dal sole e dalla siccità e il contrasto tra il giallo e l'azzurro propone un prezioso accostamento tra l'oro e il turchese! Ma ho visto anche un lago ombroso, tra correnti impetuose, sferzato da raffiche capaci di piegare fino a lambire le acque le palme piantate sulla riva. Vento, fulmini, correnti, nubi nere e che rapidamente si muovono da una l'arte all'altra, rovesciano impetuose, le cataratte del cielo. Un laghetto che si trasforma in un luogo di terrore e paura dove le barche possono ben temere di affondare rovinosamente.

Vi ho raccontato alcune immagini del lago di Tiberiade, ovvero Mare di Galilea, perché sono il luogo dove questo Vangelo prende vita, dove ha avuto origine quanto oggi la parola di Dio ci ha narrato.

È su questo lago, dove si sviluppa una relazione quotidiana con il Signore, dove l'amicizia si stringe con il lavoro, gli affetti con l'ascolto, e dove i discepoli imparano a riporre in Gesù ogni fiducia, ogni aspettativa: "Perché avete paura? Non avete ancora fede?"

Ma la fede nasce proprio in una esperienza, nasce nel passaggio dal dubbio alla presa di coscienza della propria paura. Questi discepoli di cosa hanno paura se non di morire? "Maestro, non t’importa che siamo perduti?"

Su quel lago, i discepoli di Gesù hanno sperimentato la gioia di scoprire un amico, nella bellezza di un luogo che faceva cornice a una gratificazione inappagabile. Stare con Gesù ascoltarlo, guardarlo, mangiare con lui, appagava i desideri e dava gioia e felicità. Ma forse non erano ancora arrivati a comprendere il vero spazio di possibilità che Gesù determinava nella loro vita. Ma ora nella tempesta, quello stesso luogo diviene lo spazio del nostro limite, della nostra Paura, della morte, cioè la paura di non riuscire a tenere nelle nostre mani la vita ..., come se questa vita da un momento all'altro possa sfilarsi tra le nostre dita.

Questo è il contesto in cui per la prima volta Gesù provoca i discepoli circa la fede personale. Tutto precipita nella paura, non solo rispetto alla tempesta o alla morte, ma rispetto allo spazio della Sua possibilità. È questa situazione limite che ci porta a confrontarci con la nostra fede in lui, a considerare che colui che dorme durante la tempesta è il risorto dalla morte, dalla più sconvolgente tempesta e abisso di cui l’uomo con paura fa esperienza, ma appunto se Gesù è risorto, anche se noi moriamo, Lui è con noi ed è il risorto, il Signore della vita. È questa certezza che cambia tutto!

La vita e la familiarità con Gesù sono lo spazio per trasformare la paura in amore, il timore in una fratellanza, lo stupore in consapevole fede. Anche noi dobbiamo imparare a conoscere Gesù, nessuno di noi può avere la presunzione di conoscerlo di già! Allora se Lui è con noi, a salvarci da tutti i nostri naufragi, è qui già prima del miracolo: è qui nelle braccia forti di quegli uomini che non mollano i remi; è nella presa salda del timoniere; nelle mani che svuotano il fondo della barca dall'acqua che le onde continuano a riversare. Lui è in tutti coloro che, insieme, compiono i gesti che proteggono la vita è che conducono la barca anche nella tempesta. 


sabato 19 giugno 2021

La forza nella debolezza!

2 Corinzi 12,1-10 e Matteo 6,24-34


Di che cosa Paolo può vantarsi con umiltà? Di ciò che ha vissuto come dono, cioè della intima e particolare confidenza e rivelazione a cui il Signore lo ha chiamato. Anche per noi, il nostro vero vanto, non sono le glorie che derivano dalle nostre capacità, ma semplicemente, riconoscere e porre al centro della nostra vita credente, e non solo, quell'intima presenza del Signore che ci accompagna, ci costudisce e ci precede nella vita. Quella presenza che ci rende forti nelle prove, ci rinfranca nella fatica e ci cura nella fragilità. Come per Paolo il nostro vanto non può e non deve essere che il Signore.
Ecco allora che la fragilità e la debolezza, divengono lo spazio di rivelazione del mistero di Cristo in noi. Ecco, questo dobbiamo capire: non solo per Paolo, è data l'esperienza di essere rapito al terzo cielo, di essere rapito in paradiso; anche a tutti noi, a ciascuno secondo la propria capacità e possibilità, è dato di incontrare nell'intimità della propria natura umana il Cristo di Dio. Anche noi incontriamo Gesù nella fragilità di noi stessi, in quello spazio aperto dalla "spina nella carne",  che diviene come per Giobbe (a satana è permesso di metterlo alla prova), lo spazio della prova della fedeltà all'amore di Dio, ricevuto e vissuto nell'amicizia con Cristo. Quando la deolezza e la fragilità la viviamo con umiltà e abbandono al mistero dell'amore di Dio, abbiamo maturato il vertice della spiritualità di Paolo: "Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza". Questo non rappresenta una giustificazione morale alla fragilità, ma è lo spazio della integrazione umana delle ferite che questa nostra natura porta con se nel cammino della esistenza nel tempo, in attesa del compimento nel paradiso. Sia gloria a Dio, per l'amore che ha per noi, in Cristo!

venerdì 18 giugno 2021

Sono a servizio di Cristo?!

2 Corinzi 11,18.21-30 e Matteo 6,19-23


La straordinaria consapevolezza a cui giunge Paolo, apre per tutti noi, alla vera identità missionaria: "è  nella nostra debolezza che si manifesta l'agire di Cristo a favore delle comunità di chi crede e del servizio alla parola".
Questo servizio, ovvero ministero, è per Paolo conseguenza di due amori. L'amore a Cristo, per il quale Paolo riconosce tutto ciò che per amore del Signore ha vissuto: "molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. (...) Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità." E l'amore alla comunità di Corinto, per essa Paolo prova una forma di gelosia che si manifesta come amore di cui vantarsi - ma quanto è bello! - "... dal momento che molti si vantano da un punto di vista umano, mi vanterò anch’io" (...)"Oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? Se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza". Questo amore che sembra così fragile, e debole, è in realtà la forza di cui il ministero di Paolo si nutre e dal quale trae vita. Il nostro servire la Chiesa, lì dove la Chiesa del Signore intercetta la nostra quotidianità è generato dal "servire per amore?"

giovedì 17 giugno 2021

Forse perché non vi amo? Lo sa Dio?

2 Corinzi 11,1-11 e Matteo 6,7-15


In questa parte della lettura Paolo descrive il suo imbarazzo, il suo disappunto a causa di una vicenda che mette in evidenza come tra lui e la comunità si è incrinato il vincolo di comunione, l'appartenenza in Cristo e la fiducia. Tanto è vero questo, che ora, a Corinto prevale lo spirito del sospetto, una ostilità diffusa verso l'apostolo; a volte è difficile comprendere pienamente alcune reazioni personali e annotazioni dell'apostolo, certamente è evidente come si sia innescata una "concorrenza" da parte di altri predicatori, rispetto si quali Paolo vede come alcuni della comunità si lasciano fortemente influenzare.
Non è forse così, a volte, anche nelle nostre comunità? Non sono dinamiche che spesso riconosciamo anche nelle nostre relazioni ecclesiali, dove spesso prevalgono i personalismi i carismi affascinanti, piuttosto che la verità del Vangelo.
Ecco allora Paolo, che va al cuore di sé stesso mettendo in evidenza il contenuto e le motivazioni della sua predicazione: "Forse perché non vi amo? Lo sa Dio!"
Il rapporto che nasce dall'annuncio del Vangelo, dalla predicazione e nel nascere di una comunità, in senso positivo, motivo di vanto, ma soprattutto espressione sincera di un amore che con tutta la sua fragilità può essere sottoposto alle tentazioni e alla crisi quando viene disatteso. Paolo sperimenta questo amore pastorale. Ma è anche l'esperienza di molti di fronte all'amarezza affettiva che a volte si genera nella vita comunitaria. L'amore pastorale va sempre alimentato e purificato attraverso il servire gratuito ... Come Paolo insegna.

mercoledì 16 giugno 2021

Saremo ricchi per ogni generosità!

2 Corinzi 9,6-11 e Matteo 6,1-6.16-18


La generosità non è solo e non deve essere, per un discepolo di Gesù, solo una questione economica; per Paolo non riguarda solo la necessità legata alla colletta per Gerusalemme. Anzi, questa diviene l'occasione per enunciare un principio che coinvolge ogni aspetto e ambito della vita del credente: "tenete presente questo: chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà e chi semina con larghezza, con larghezza raccoglierà."Ma una larghezza che non dipende dal nostro buon animo, quanto piuttosto dal fatto che "Dio ha potere di far abbondare in voi ogni grazia perché, avendo sempre il necessario in tutto, possiate compiere generosamente tutte le opere di bene".
La generosità, la larghezza d'animo, la disponibilità è quanto esprime in noi la possibilità di donare a partire da noi stessi per arrivare anche ai beni, e rappresenta un criterio che va oltre l'esperienza della fede. Rappresenta infatti, un modo di essere umanamente maturi. Il dono di noi stessi e dei nostri beni, prefigura ed interpreta anche il nostro modo di amare, con libertà è gratuità, senza calcolo e senza nulla pretese.
L'avarizia, l'avidità e l'egoismo rivelano invece, quando la nostra umanità si chiude in sé stessa e si dimostra senza possibilità di apertura verso i fratelli. La generosità umana, quella che esprime attraverso noi, rappresenta il vero superamento del limite di un "umano" ripiegato su se stesso.
Questa esperienza di umanizzazione, ha origine nella generosità di Dio, o meglio ancora nel suo amore gratuito per tutti i suoi figli. Paolo riconosce a questo punto anche una necessaria obbedienza, per chi crede: "Dio ama chi dona con gioia". Si tratta di una bella evidenza!

martedì 15 giugno 2021

È bellissimo mettere alla prova il nostro amore ...

2 Corinzi 8,1-9 e Matteo 5,43-48

Ad amare si impara amando. L'occasione della "colletta" per la Chiesa di Gerusalemme, è motivo per Paolo per mostrare come l'amore è una forza straordinaria che supera ogni povertà e ogni piccolo interesse di parte. Le comunità della macedonia diventano ben più di un esempio da imitare, ma sono un laboratorio dell'arte di amare: " ... si sono offerti prima di tutto al Signore e poi a noi, secondo la volontà di Dio". 
Il loro amore ha superato il gesto di benevolenza di una elemosina per una Chiesa sorella in difficoltà; il loro amore ha espresso la piena gratuita del dono di sé stessi prima di tutto animandolo con la grazia che è di Dio: il loro amore è frutto dell'amore di Dio. Poi hanno sperimentato che il donarsi non è mai una sottrazione ma è sempre un'addizione: più ami nella gratuita e più vorresti amare donando ben più di te stesso.
La 2 lettera ai Corinzi, è allora per Paolo una grandissima occasione per verificare anche il suo amore per coloro che ha generato alla fede in Cristo. È una occasione di verificare la verità è libertà del suo amore, è l'occasione per mettere alla prova se stesso e non solo gli altri, è in questa concretezza di situazioni che Paolo impara ciò che insegna: l'arte di amare è una opportunità inaudita per unirci a Cristo che "da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà";Gesù ricco di amore si è riversato su di noi per dare pienezza al nostro amare.


lunedì 14 giugno 2021

A servizio di Dio ... Per servire i fratelli!

2 Corinzi 6,1-10 e Matteo 5,38-42


Ogni discepolo è ministro di Dio. In una visione troppo strutturata il ministero è inteso come un compito particolare, riservato se non un privilegio. Nell'esperienza cristiana o
 Ministero è un servire i fratelli con quella grazia particolare di Dio che si manifesta nel nostro agire personale. Lo stesso Paolo in questa lettera, quasi con stupore mette in evidenza, in un gioco di contrapposizioni come il suo essere a servizio della grazia si è manifestato in situazioni tra loro discordanti e opposte, certamente inaspettate per l'apostolo. Ma al vertice di tutto il ministro, di servire i fratelli che cosa ci sta? La filantropia? No, dobbiamo riconoscere che troviamo ben più di un bene per l'uomo; Paolo si sente coinvolto nel tempo favorevole della salvezza. Esso non è un tempo che non c'è ancora e che deve venire, ma è la quotidianità. Ecco il tempo favorevole, dove ogni discepolo riversa, perché sia accolta la grazia di Dio, quella grazia che ha ricevuto, forse anche indegnamente. Certamente in un contesto di inadeguatezza. Ma è questo che Ermete lo stupore e la meraviglia di essere ministri anche nelle situazioni più imprevedibili ed inimmaginabili. Il ministero in realtà non è un servizio per la fatica, ma un servire che apre all'opportunità! Ecco allora l'animo del nostro servire: "non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga criticato il nostro ministero; ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio con molta fermezza".


domenica 13 giugno 2021

Il regno di Dio non è una storia per immagini

Ez 17,22-24; Sal 91; 2Cor 5,6-10; Mc 4,26-34


Le immagini paraboliche sono come delle fotografe che fissano per sempre una frazione della realtà e la rendono così accessibile per sempre ... ma come tutte le immagini non rappresentano il tutto, esse vanno comprese, ripensate, attualizzate.
Queste Prabole sono il modo in cui Gesù ci narra il Regno di Dio.
Nella Evangelii Gaudium, papà Fancesco dice che il Regno di Dio è già presente nel mondo, e si sviluppa qui e là, in diversi modi: come seme gettato nel campo che arriva a produrre frutto, oppure come il piccolo seme che può arrivare a trasformarsi in una grande pianta ... capace misteriosamente di accogliere fra i suoi rami il nido degli uccelli del cielo.
Ecco che le parabole fotografano il regno di Dio, e ci mettono a confronto con l'agire di Dio nella nostra quotidianità.
Le parabole ci portano a credere nella fecondità della Parola di Dio. La parola di Dio, il Vangelo annunciato da Gesù, nel suo mistero, ci porta ad avere fiducia in Dio che si accompagna con la nostra vita e le nostre fatiche per l’edificazione della Chiesa.
Ecco allora che queste immagini ci servono per capire come nella nostra quotidianità noi stessi possiamo e dobbiamo essere Vangelo vivente.
A volte noi abbiamo la pretesa che al nostro annuncio debba corrispondere una gratificazione: una risposta immediata, invece ... nulla, anzi è più facile che a fronte di tanto nostro impegno raccogliamo solo delusione.
A volte abbiamo paura di dover annunciare il Vangelo, e ora, anche paura di non saperlo più fare. A volte temiamo di dovere fare una azione di propaganda. Come si fa ad annunciare il Vangelo?
La risposta più corretta potrebbe essere: "Chi rimane in Cristo, come il tralcio nella vite, e si dona a Dio per amore, e sicuramente nel suo annunciare sarà fecondo.
Tale fecondità, dice il Papa, molte volte è invisibile, inafferrabile, non può essere contabilizzata. Uno è ben consapevole che la sua vita darà frutto, ma senza pretendere di sapere come, né dove, né quando. Ha la sicurezza che non va perduta nessuna delle opere di amore, non va perduta nessuna delle sincere preoccupazioni per gli altri, non va perduto nessun atto d’amore per Dio, non va perduta nessuna generosa fatica, non va perduta nessuna dolorosa pazienza.
Tutto questo richiede, la fiducia nello Spirito Santo, fiducia come quella che riponiamo nel seme di grano che a ottobre interriamo nei campi e che a luglio mietiamo come spighe dorate.
Fidarsi, significa abbandonare la pretesa di essere noi artefici e destinatari dell'annuncio; fidarsi è come immergersi in un mare dove non sappiamo che cosa incontreremo. Tuttavia, dice il Papa, non c’è maggior libertà che quella di lasciarsi portare dallo Spirito, rinunciando a calcolare e a controllare tutto, e permettere che Egli ci illumini, ci guidi, ci orienti, ci spinga dove Lui desidera.
Annunciare il Vangelo senza precomprensioni, per he il nostro vivere la parola sarà comunque capace di incontrare la vita di altri, che nella nostra parola come gli uccelli del cielo, troveranno casa, faranno il nido. Ma non sta a noi decidere chi farà questo.
Annunciare il Vangelo è prima di tutto esercizio allo stupore, alla meraviglia e alla accoglienza della possibilità di vedere agire lo Spirito di Dio.
Annunciare il Vangelo allora è cosa ben diversa di fare un ciclo di catechesi, o fare istruzione religiosa per i sacramenti. Annunciare il Vangelo è fare della nostra vita e storia personale un granello di senape, che nel quasi nascondimento, sa che per grazia di Dio diventerà un albero.  
Questo nostro agire ci permette di incontrare Dio che mescola la sua vita con la vita del suo popolo e coinvolge altri perché non abbiano paura di fare di questa storia una storia di salvezza: cioè, riaccendere nei cuori delusi la speranza e la voglia di sognare, superare con la fraternità ogni forma di degrado, vincere con la solidarietà l’ingiustizia, spegnere con le armi della pace la violenza, usare tenerezza e compassione, creare spazi perché i ciechi vedano, i paralitici camminino, i lebbrosi siano purificati e i sordi odano.


sabato 12 giugno 2021

Isaia 61,10-11 e Luca 2,41-51 - Cuore Immacolato di Maria


Quale atteggiamento della vita di Maria possiamo riconoscere e fare nostro in questa memoria così particolare che oggi la liturgia della Chiesa ci offre?
Resto colpito dal Vangelo di Luca Dalla nota redazionale: "Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore"; credo sia l'atteggiamento che deve essere di ciascuno di noi, rispetto alle vicende della vita. Il discepolo di Gesù non giudica, non trae conclusioni affrettate, non si scandalizza di ciò che accadde, non risponde o agisce senza ponderare, pur con tutti i limiti caratteriali e di temperamento che possiede. Il custodire è un'arte di amorevole cura e attenzione.
Custodire non è archiviare gli avvenimenti, non è collezionarli nella nostalgia dei ricordi, e neppure crearsi un modo parallelo e a parte. Custodie è l'atteggiamento della vita che impariamo da Maria: capace di subire anche le vicende e gli avvenimenti che fanno soffrire e che non si comprendono, ma che comunque non possono, e non si devono rigettare. Maria custodisce nel cuore, significa che trattiene tutto, mettendo tutto in quella realtà di grazia che è l'agire di Dio, mette tutto nella sua volontà che si manifesta nella nostra esistenza. Custodire significa esercitarci a comprendere, non è capire e analizzare, ma a comprendere il tutto di noi, nella consapevole esperienza che la volontà di Dio si compie anche assieme alla nostra. Custodire allora diviene attesa, compimento e stupore, cioè uno sguardo sereno e benevolo sulla vita. Credo che ne abbiamo bisogno!

venerdì 11 giugno 2021

Sentirsi amati da Dio ...

Osea 11,1.3-4.8-9; Efesini 3,8-12.14-19; Giovanni 19,31-37
Solennità del Sacro Cuore di Gesù 

Cosa significa sentirsi amati da Dio? Forse con troppa facilità pronunciamo queste espressioni che appartengono al senso comune di chi crede. Cosa significa sentirsi amati se non riconoscere e partire dalla nostra fragilità, rispetto alla quale ci sentiamo inadeguati e incapaci di soluzione ... Eppure è proprio quella fragilità che ci pone nel desiderio e nella speranza di essere ugualmente amati da chi può colmare col suo amore tanto limite, tanta fatica, tanta umanità ...
Le parole di Osea inaugurano il cammino della vita di ogni uomo, anche di tutti coloro che per un motivo o per un altro sono lontani da una visione di fede. Dio, dice il profeta, ti ha amato da quando eri fanciullo, e questa scelta di predilezione è solo ed esclusiva sua volontà. Egli che ti prende ieri mano e ti fa camminare. È una immagine bellissima per rassicurarci la piena libertà del Padre rispetto a tutti noi. Una esperienza che si avvicina la facciamo quando il nostro amare libero da condizionamenti, riesce a percepire che essere discepoli di Gesù significa prima di tutto amare, amare con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza. Questo amore è ciò che Gesù ha vissuto con noi, e che ha ricevuto dal Padre. È l'amore che lo ha tenuto inchiodato sulla croce ma è anche l'amore con il quale guarda le nostre fragilità, per sussurrarci sempre che il suo amore è fedelmente donato. Condotti anche oggi dalla mano del Padre, anche noi ci inginocchiamo come San Paolo, e facciamo nostra la sua stessa esperienza di amore ricevuto: "Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio".


giovedì 10 giugno 2021

La gloria rifulge in noi

2 Cor 3,15-4,1.3-6 e Matteo 5,20-26


Quale è il nostro ministero rispetto all'annuncio del Vangelo. Forse lo dimentichiamo, ma per come Paolo anche per ciascuno di noi, realizza nella propria vita il ministero della Parola: "E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore". Così anche noi veniamo trasformati per riflettere la gloria del Signore, ovvero darne testimonianza con la vita nel nostro quotidiano.
Il ministero di Paolo era quello di "far brillare la luce della conoscenza della gloria di Dio che rifulge nel volto di Gesù Cristo", nel Vangelo di Giovanni, Gesù stesso dice: «Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita», in Cristo risiede lo splendore della gloria di Dio che per misericordia, ci chiama a conoscerlo ed a stabilire con lui una durevole comunione.  

È questo mistero di comunione che rappresenta il cuore dello svelamento della gloria. Se di fronte alla gloria, i nostri padri stavano in una adorazione velata, per noi invece,  il mistero ci introduce nello svelamento, cioè conoscer il Padre attraverso la conoscenza-comunione con Cristo. Ecco allora un piccolo aiuto o insegnamento Paolino circa il nostro ministero/servizio: Siamo infatti chiamati, ciascuno secondo i talenti che ha ricevuto, a riflettere la luce con la quale Cristo illumina il nostro cuore, affinché il mondo che ci circonda possa esserne altrettanto beneficato.


mercoledì 9 giugno 2021

Specchiati e Trasformati

2 Corinzi 3,4-11 e Matteo 5,17-19


I nostri limiti e la nostra inadeguatezza sono il punto di partenza per mettere la nostra fiducia in Cristo. L’apostolo Paolo indirizza questa riflessione ai Corinzi per ricordare che la sua stessa predicazione si è svolto nella assoluta fiducia che è lo Spirito del Dio vivente che scrive nei cuori la «lettera di Cristo». Non è quindi per un particolare merito umano, né per una particolare conoscenza propria che possiamo annunciare il vangelo, ma per la forza e la grazia di Dio. Ecco allora che la predicazione della Parola è occasione per il credente per contemplare a viso scoperto senza veli il Signore: questo significa che le nostre menti non sono più nelle tenebre, perché siamo in stato di conversione. “A viso scoperto” in uno stato permanente di svelamento il discepolo di Cristo può sempre contemplare la gloria del Signore!
Quando infatti, quando ci specchiamo nella gloria del Signore, veniamo trasformati nella Sua stessa immagine. Lo specchio di gloria in cui rifletterci è il Vangelo stesso, per cui noi rispecchiandoci nella gloria del Signore, lo Spirito Santo ci trasforma nella stessa immagine del Signore e quindi la Sua gloria è riflessa in noi!! Non siamo noi che ci trasformiamo all’immagine di Cristo, ma è lo Spirito Santo che ci trasforma, ma gli è lo dobbiamo permettere di farlo. 

martedì 8 giugno 2021

Il "si" di Cristo e il nostro "amen"

 2 Cor 1,18-22 e Matteo 5,13-16


Di fronte a chi lo accusa di essere una banderuola, di essere incoerente e oscillare tra il si è il no. Paolo reagisce con forza ribadendo la sua totale aderenza al modello che è Cristo, riprendendo quelle espressioni del discorso della montagna dove Gesù disse: "Sia il vostro parlare si, si; no, no!" Anzi, Paolo, afferma che tutta la vita di Gesù e le sue opere furono un "si" pieno e totale per realizzare le promesse di Dio Padre.
La fedeltà di Dio alle sue promesse non venire meno e tantomeno il portarle a compimento, che trova in Gesù la piena realizzazione. Lo stesso Vangelo testimonia e racconta il "si" di Gesù. Di fronte a questa consapevolezza, Paolo attesta, per se e per tutti i credenti, un "amen" che esprime anche il nostro riconoscimento. Amen è ben di più della parola conclusiva delle nostre preghiere, esso è la parola che dice il nostro accogliere il "si" di Cristo per poter anche noi compiere in pienezza la volontà del Padre. Ecco che il nostro "si" quotidiano non deve essere pensato come un gesto eclatante o come lo slancio di risposta alla chiamata vocazionale. Il nostro "si", a imitazione di Gesù, è disponibilità a vivere la quotidiana battaglia che la Parola ci conduce a fare. È il nostro accogliere la possibilità di compiere la volontà di Dio nella nostra quotidianità. E anche come occasione per esprimere quell'"amen" che rende partecipe ogni nostra intenzione della fedeltà di Dio alle sue promesse.

lunedì 7 giugno 2021

La consolazione ...

2 Corinzi 1,1-7 e Matteo 5,1-12


Negli Esercizi Spirituali di Sant'ignazio di Loiola si parla della consolazione: "Terza regola: la consolazione spirituale. Si intende per consolazione quando si produce uno stimolo interiore, per cui l'anima si infiamma di amore per il suo Creatore e Signore, e quindi non può amare nessuna delle realtà di questo mondo per se stessa, ma solo per il Creatore di tutte; così pure quando uno versa lacrime che lo portano all'amore del Signore, sia per il dolore dei propri peccati, sia per la passione di Cristo nostro Signore, sia per altri motivi direttamente ordinati al suo servizio e alla sua lode. Infine si intende per consolazione ogni aumento di speranza, fede e carità, e ogni gioia interiore che stimola e attrae alle realtà celesti e alla salvezza dell'anima, dandole tranquillità e pace nel suo Creatore e Signore."
In 2 Corinzi, Paolo dopo aver augurato "grazia e pace da Dio" ai suoi destinatari, si effonde nella descrizione elle sue consolazioni. "Come abbondano le sofferenze di Cristo in noi - dice Paolo - così abbonda la nostra consolazione". Siamo consolati e approdiamo a una pace e una gioia che "nessuno potrà rapire". Non solo ma diventiamo capaci di consolare gli altri. Questo per Paolo è vero al punto che nella fede vive l'esperienza della prova come occasione, non solo come fatica. Lui stesso rivive le sue sofferenze: l'essere stato imprigionato, lapidato, picchiato; ma tutto diventa occasione di crescita, non solo personale, ma anche comunitaria, fraterna. L'intuizione di Paolo si manifesta ancora una volta: da una difficoltà riesce a trarre un insegnamento per far crescere la comunità nell'amore. 

domenica 6 giugno 2021

Desiderio di essere uno ... Un solo corpo ...

Es 24,3-8; Sal 115; Eb 9,11-15; Mc 14,12-26

Nella comunità cristiana dei discepoli di Gesù a partire dal quarto secolo, troviamo la memoria del luogo dell'ultima cena. Viene fissata e per secoli riconosciuta, e visitata, come luogo in cui Gesù spezzò il Pane e lo diede ai discepoli come suo corpo; dove prese del vino e lo diede ai discepoli come suo sangue. Il tutto come segno del dono della sua vita, del sacrificio che sarebbe stato consumato sulla croce.

Questa priorità della Chiesa delle origini esprime l'importanza e l'urgenza non certo di rintracciare i luoghi archeologici per i nostri pellegrinaggi, ma per esprimere nel tempo ben di più di una memoria, ma una continua attualizzazione di quel gesto fatto da Gesù.

Trovare quel luogo fu una necessità esistenziale, al punto che non ci si meraviglia scoprire che forse non era proprio quello il luogo del cenacolo, ma che in verità si trova in una parte di Gerusalemme (il seminario della Chiesa Armena) di cui si erano perse le tracce, in quanto dal 70 dC è fin oltre il secondo secolo, zona dell'accampamento Romano in città, e quindi interdetto a tutti.

Ma la comunità Cristiana non può fare a meno di un luogo dove riconoscere rendere attuale quel darsi di Gesù nel pane e nel vino.

Per noi oggi, quindi, a cosa serve un Pane, un Dio, chiuso nel tabernacolo, da esporre di tanto in tanto alla venerazione e all’incenso?

Gesù non è venuto nel mondo per creare nuove liturgie, ma figli liberi e amanti e vivi in forza della sua vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Corpo e sangue indicano tutta la sua esistenza, la sua vicenda umana, è tutto il mistero della incarnazione.

Diceva il Vescovo Giovanni giovedì sera in Cattedrale: "Senza l'eucaristia non possiamo vivere"! E questa condizione quando ci è stata pesante in questi mesi di pandemia e in quelle settimane di divieti.

Una provocazione vera nel senso che non possiamo vivere cristianamente senza l'eucaristia; e che se ci priviamo dell'eucaristia, che vita è la nostra?

Fare la festa del Corpus Domini, ci riporta a una concretezza necessaria e rigenerante.

Raramente infatti, prendiamo coscienza che il mistero dell'incarnazione rivela ed esprime il dono della vita di Dio agli uomini. Gesù non è venuto solo per perdonarci i peccati ma per darci la sua vita: "... prese il pane, lo spezzò e lo diede loro e disse ... Mangiatene tutti ..."

Non è una consegna simbolica, ma un agire intenzionale; da quel darsi per noi cambia tutto ... Eppure siamo sempre così superficiali, indifferenti ... Così insipidi rispetto alla relazione/amicizia che Gesù ci offre...

Forse a volte non vogliamo ammetterlo, ma ci abituiamo a una vita priva del suo pane ... Una vita che diviene grigia e senza fragranza...

Oggi vogliamo recuperare quel corpo spezzato ... Il pane consacrato come il mio nutrimento per la vita eterna, a partire da questa vita che è già la premessa per quella vita che in me, supererà e vincerà la morte se unita al Signore.

Oggi voglio bere e quel sangue versato. Il vino donato, purifica il peccato del mondo e scorre nel sangue di tutti gli uomini distruggendo ogni barriera e divisione. Quel sangue versato da Cristo sulla croce, quel vivo dato come sangue ai discepoli impasta (unisce) la terra al cielo. Abbiamo lo stesso sangue, per cui ogni uomo è mio fratello ... E se da cristiano penso che qualcuno possa essere trattato diversamente da come io voglio essere trattato, considerato, conosciuto, allora disconosco e annullo il segno del Sangue di Cristo. E vanifico la fratellanza.

sabato 5 giugno 2021

Fare conoscere le opere di Dio.

Tobia 12,1.5-15.20 e Marco 12,38-44

A conclusione della narrazione, l'autore sacro introduce un tema che generalmente non viene preso in considerazione, il tema della ricompensa. Tobia e Tobì, ora si rendono conto di avere ricevuto tanto, molto più di quanto si aspettavano. L'incontro con Azaria-Raffaele, pone in essere una nuova prospettiva che non si limita alla retribuzione, ma dilata e ribalta il nostro modo umano di comprendere la categoria della gratuità, ovvero della grazia. Alla luce della quale, anche l'osservanza della Thorah (delle leggi di Dio) acquista un'altra risonanza. Se da una parte si vuole esprimere il giusto desiderio di contraccambiare i doni ricevuti, ciò che deve emergere è che Dio non "prende" nulla in cambio per i suoi doni. Il suo obiettivo è un altro: istaurare una relazione di amore e fiducia con lui. Raffaele testimonia che colui che opera il bene (Dio) e vuole la vita per le sue creature, dispone tutto in modo che si passa riconoscere e riconoscerlo in ogni gesto di amore.; ogni gesto di bene non va perso, anche quando le apparenze sembrano affermare il contrario.

Anche noi, facciamo esperienza della bontà di Dio, ma quando facciamo esperienza del riconoscere la sua piena gratuità? E cosa cambia in me questo gratuita di Dio?


venerdì 4 giugno 2021

Una storia a lieto fine

Tobia 11,5-17 e Marco 12,35-37


Con il ritorno del figlio, l'abbraccio della madre, la guarigione di Tobì, la vicenda narrata nel libro giunge al suo lieto compimento, tanto da suggerire a tutti un rendimento di grazia a Dio che salva e nella sua provvidenza consola.
Ma leggendo questo passaggio cruciale con più attenzione, si intuisce che la guarigione di Tobì non è tanto è solo fisica ma è spirituale. In effetti tutta questa sezione esprime la conversione e da uno stile di vita rassegnato e senza reale prospettiva a uno stile di vita in cui si inizia a pensare in modo differente, a guardare il mondo con occhi diversi. Possiamo infatti vedere che Tobì passa dalla deviazione alla legge, che lo rendeva un pio israelita - che per pietà seppelliva i morti - alla esperienza nuova della fede in Dio che salva e ama. Il ritorno del figlio Tobia insieme a Raffaele, cosa rappresenta se non l'irruzione inaspettata ma provvidenziale della vita di Dio in una esistenza, in una famiglia desolata e sconsolata, segnata profondamente dalla fatica di una fedeltà alla legge, che a lungo andare sfinisce. Ecco che il vero miracolo è dato nell'aprirsi degli occhi per scorgere nella propria storia la mano provvidenze di Dio. Quando nella vita riusciamo a esprimere la nostra benedizione, allora le quotidiane esperienze non sono solo occasioni di fatica, ma di trasformazione del nostro cuore. A volte il vero miracolo non si vede se non con gli occhi del cuore, cioè quando cadono quelle "scaglie" che non ci permettono di vedere nella realtà il dispiegarsi della provvidenza di Dio. E la provvidenza non è detto che sia solo la soddisfazione dei mostri desideri, o il superamento delle nostre fatiche, a volte è anche "solo" un vento fresco e nuovo, che porta con sé un poco di refrigerio.

giovedì 3 giugno 2021

Una "storia" - chiamata - narra la nostra esistenza!

Tobia 6,10-11; 7,1.9-17; 8,4-9 e Marco 12,28-34

Il libro di Tobia è narrazione di un cammino, anzi del cammino della vita. In questo cammino ciascuno è chiamato a percorrere eventi, situazioni, incontri attraverso i quali giungere a dare pienezza al proprio esserci, al proprio progetto-vocazione: cosa siamo chiamati a essere; da chi siamo stati chiamati a esserci; per chi siamo chiamati ...
In questo percorso Tobia, come anche Tobì e Sara, non sono abbandonati a se stessi, ma in ogni situazione e circostanza il Libro afferma la compagnia e vicinanza di Dio e dei suoi messaggeri. È un Dio che chiama all'esistenza ma che in quella chiamata è pienamente coinvolto, e ciò si riconosce nel confronto con la mia libertà e nella sua fedeltà; egli non può venire meno alla promessa di amore che è la mia stessa vocazione.
La stessa esperienza di Tobia altro non è che il cammino alla ricerca di quell'amore che può dare senso e pienezza alla sua esistenza. Ma non è un amore di pura sensualità, esso è un amore che prende consistenza attraverso la scoperta tra Tobia e Sarà della medesima vocazione. Ciò che i due giovani sperimentano, allora, è l'obbedienza alla medesima vocazione di vita, ad un "disegno" a cui si appartiene in due. Leggendo la storia narrata noi recepiamo, come per l'autore sacro, Sara fa parte della stessa vocazione di Tobia, essa entra in uno stesso disegno fin dall'eternità. Solo in una disponibilità ad obbedire al dono che derivata tale vocazione, che è anche iniziativa di Dio, Tobia può amare Sara, così da non distogliere più il suo cuore da Lei. La stessa prima notte di matrimonio, racconta questo primato del cuore che solo può accogliere la grazia dei sentimenti e della passione umana.


mercoledì 2 giugno 2021

La fatica della sofferenza

Tobia 3,1-11.16-17 e Marco 12,18-27

Sia Tobì che Sara esprimono nella loro vita il dramma di chi soffre e non trova alcuna consolazione né da chi si ama, né dagli amici e neppure da chi è più prossimo.
Entrambi sperimentano l'esclusione e il giudizio colpevolizzante degli altri che non tengono conto di nulla, circa la verità della loro vita, ma che si limitano a indicare nella malattia o nella maledizione il segno del giudizio di Dio. Per entrambi il giudizio è senza pietà, essi hanno sbagliato tutto nella vita e il loro peccato insieme al peccato di infedeltà del popolo li sovrasta. Nelle vicende personali si ripercorrono i limiti e le infedeltà di coloro che li hanno preceduti, del popolo e dei loro progenitori.
Ma è proprio di fronte a questa degenerazione e a questa straziante condizione di vita, che solo promette depressione, abbandono e un profondo desiderio di morte, che l'autore sacro pone in contrapposizione la presenza di Dio, così come dalla sua rivelazione ad Abramo, Israele ne ha riconosciuto i tratti consolatori. Si tratta dell'agire nascosto e provvidenziale di Dio; un Dio che non manca di soccorrere chi in lui si rifugia. È Raffaele, l'angelo, che diviene mediazione dell'agire di Dio. Dio si manifesta con delicatezza, con intermediari, che con  la loro umanità accompagnano e si accostano alle ferite della vita, fino ad accostare a ciascuno di noi lo stesso Signore, rolanciando così il desiderio di felicità e compimento, che neppure la più forte sofferenza potrà mai estinguere o stralciare dal nostro cuore. La storia di Tobì, Tobia e Sara, rappresentano una catechesi narrativa, ci viene chiesto di entrare attraverso le loro vicende personali, in quel raccontarci le nostre fatiche e sofferenze, per poter riconoscere anche l'agire discreto e delicato di Dio, che mai si sottrae rispetto all'essere consolazione è misericordia.

martedì 1 giugno 2021

Messo alla prova

Tobia 2,9-14 e Marco 12,13-17


Il libro di Tobia, è un testo deutero-canonico, cioè ritenuto ispirato e quindi parte del canone delle scritture dei Cattolici e degli Ortodossi, ma non dai Protestanti, esso non è parte della Bibbia Ebraica. Si presenta dunque come un racconto popolare, di natura storica e sapienziale insieme, si propone di sottolineare l’importanza dell’elemosina, della preghiera, della fede e di ogni opera di bene, nella fiducia in Dio e nella sua continua provvidenza. La Provvidenza divina, infatti, mette alla prova ma pone anche di fronte alla retribuzione terrena del bene. Inoltre, viene presentata la figura degli angeli, di Raffaele che oltre ad essere un custode degli uomini giusti, è anche un accompagnatore di viaggio, un guaritore, un mediatore di matrimonio e anche intercessore.
Tobia è un uomo giusto, pio, di una fede pura e capace di infiltrare tutta la vita. Ma anche questo non esclude la possibilità di vivere ed essere messo alla prova. Il racconto del libro infatti vuole mettere in evidenza come è possibile e necessario vivere quando nella vita siamo messi alla prova. Il libro racconta come la "messa alla prova" non è un capriccio di Dio, ma come una esordiente che ha la possibilità di trasfigurare tutta la propria esistenza a partire dalla stabilità della fede e dell'adorazione di Dio. Come dire: è possibile nella prova fissare lo sguardo al mistero di Dio amore? La "messa alla prova" apre a questa possibilità, una condizione disarmante che mette in evidenza le nostre virtù, come anche tutte le nostre fragilità e ferite, compresa la ribellione nel vivere la prova.