sabato 31 luglio 2021

Suonate il corno: è l'anno del giubileo

Levitico 25,1-17 e Matteo 14,1-12


È di ieri la notizia che anche quest'anno abbiamo già consumato quanto la terra mette a disposizione ogni anno, come ricchezza naturale e sue risorse, e che l'uomo sfrutta per vivere sul pianeta.
Il rapporto con i beni e con la natura, il loro possesso è al centro del capitolo 25, insieme al nuovo rapporto che si genera tra uomo e uomo. Il capitolo 25 di Levitico presenta una sintesi sapiente su come stare nella terra: uscendo dalla logica di uno sfruttamento indiscriminato dei beni a nostra disposizione; e guardando a ciò che abbiamo come un dono e, quindi, dentro la relazione con Dio, che è provvidente e buono; tenendo conto del fratello come di colui che siamo chiamati a liberare, preoccupandoci che abbia ciò che gli è necessario alla vita.
In definitiva il Levitico ci offre la riflessione sul riposo sabbatico dal quale fuoriesce il senso di giustizia. Nel tempo dello Shabbat ci viene data la possibilità di risanare le relazioni con i beni della terra, con il prossimo e con Dio.
Si inserisce nelle relazioni tra uomo e uomo,  tra uomo e "cose" e tra uomo e Dio la condizione di gratuità, che è una chiave di lettura e di interpretazione inaudita, se ci pensiamo bene. Ma proprio nella gratuità tutto viene rinnovato e rigenerato nel tempo.  L’anno giubilare, d’altra parte, richiede di assumere l’idea che le risorse della terra hanno, in prima istanza, una destinazione comunitaria. Il Levitico invita, pertanto, a sospendere la relazione di possesso assoluto dei beni e delle persone per orientarci, invece, nella ricerca e al riconoscimento del valore del creato e di ogni persona.

venerdì 30 luglio 2021

Un tempo che è sacro ...

Levitico 23,1-37 e Matteo 13,54-58


È più facile accettare una normativa religiosa come quella descritta nel brano del Levitico, che accogliere la "Parola" che Gesù a Nazareth ha rivolto ai suoi compaesani.
In tutto il pentateuco, ma in generale in gran osate della rivelazione ad Israele, ogni uomo che riceve la rivelazione di Dio, non parla mai da se stesso, ma riferisce al popolo la parola di Dio: "Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: ..."; non è mai una iniziativa propria del Patriarca o del Profeta ...
Gesù, suscita molto disorientamento perché si pone in una prospettava completamente diversa, egli stesso infatti è autoreferenziale in ciò che dice e opera. In questo si genera lo scandalo di chi riconoscere in lui solo il figlio del falegname.
Ma venendo a Levitico, oggi possiamo rilevare come insieme alle alle leggi sociali, morali e religiose che il Signore diede a Mosè per il popolo di Israele, Egli comandò che venissero osservate una serie di festività annuali. Sono feste solenni volute da Dio e a Lui dedicate. Pur essendo festività religiose, hanno una grande importanza anche per l'agricoltura, scandendo le fasi di semina e raccolto. Sembra infatti non solo un modo di rendere sacro il tempo profano, i tempi della natura e quelli dell'uomo, ma pongono la presenza e l'agire di Yhwh, nel tempo profano; Dio non è fuori dalla realtà creata. Festività che oltretutto assumono una valenza profetica in ordine alla narrazione della storia della salvezza che ha in Gesù il compimento di ogni sacrificio, festa e solennità.
Questo sarebbe sufficiente per interrogarci sul senso e il modo attuale di viver il tempo della festa, delle solennità e dei precetti nella vita della comunità cristiana. Sarebbe bello aprire una discussione senza preconcetti e pregiudizi.

giovedì 29 luglio 2021

Rimanere nell'amore ...

1 Giovanni 4,7-16 e Giovanni 11,19-27

Santa Marta, Maria e Lazzaro 


Con una certa sorpresa, stamattina ho imparato che da quest'anno non festeggerò solo Santa Marta, la laboriosa, come anche colei che precorre la fede nella risurrezione dai morti, ma anche Maria, sua sorella alla quale non sarà chiesto di lascare il suo ascolto del maestro a favore di altro, e pure Lazzaro, loro fratello è amico particolare di Gesù.
È il papa che ha deciso questo allargamento della memoria, mettendo in evidenza come ciò che lega tutti e tre è il loro intimo rapporto è la loro amicizia con il Signore.
Ciò che hanno sperimentato nella casa di Betania, non è solo la cordiale ospitalità, ma la fedeltà all'amicizia, essi sono rimasti nell'amore di Gesù.
La prima lettera di Giovanni ci dice di rimanere nell'amore, per rimanere in Dio; questa condizione non si esprime e neppure si impara all'improvviso, è il frutto della fedeltà all'amore che si sperimenta a partire dall'amicizia, dalle relazioni che umanamente ci toccano. Quando siamo disposti a superare i limiti e a vincere le tentazioni che nascono nei rapporti amicali, attraverso la fedeltà, allora stiamo camminando nella fedeltà e nella pazienza di Dio per noi. La nostra maturità umana e relazionale si commisura proprio a partire da questa apertura che poniamo nei confronti dei fratelli.
Gesù, prima di essere il maestro, il figlio di Dio che da la vita ai morti, è stato pur sempre uno che ad un certo punto ha fatto irruzione nella casa di Betania, e da lì è nato un cammino di amicizia e fedeltà.

mercoledì 28 luglio 2021

Il nostro volto radioso

Esodo 34,29-35 e Matteo 13,44-46


Mosè scende dal monte con le tavole «nelle sue mani», ma «non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con lui» (34,29). È misterioso e meraviglioso questo splendore del volto del profeta. Mosè non è consapevole che il suo volto splende di una luce nuova e diversa. Ogni splendore è esperienza relazionale, sono gli altri che guardandoci ce lo rivelano: «Aronne e tutti gli Israeliti, vedendo che la pelle del suo viso era raggiante, ebbero timore di avvicinarsi a lui» (34,30). L’esperienza spirituale e mistica è sempre esperienza incarnata. Il volto e gli occhi luminosi sono il primo segno che non abbiamo incontrato un idolo. Il dialogo con Yhwh ci fa più belli, e gli altri devono vedere questa bellezza diversa: se non vediamo il volto di Dio, possiamo vedere la sua luce nei nostri volti.

martedì 27 luglio 2021

Fa' di noi la tua eredità!

Esodo 33,7-11; 34,5-9.28 e Matteo 13,36-43

Questa pagina di Esodo, "inverosimile" per la narrazione, in realtà rimanda a una visione che vuole rappresentare il "mito" della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, a partire dalla manifestazione e nel roveto ardente sul monte, avuta da Mose: Yhwh, nel suo stesso nome si manifesta come colui che è presente e accanto al suo popolo.
Ecco che a conclusione di un cammino che conduce il popolo nel luogo della presenza, il Monte, viene idealizzata la "Gloriosa presenza".
Essere alla presenza serve per contrastare ogni possibile defezione - dopo il vitello d'oro - è Yhwh stesso che nella sua presenza pone le condizioni perché ogni uomo possa custodire la fedeltà al patto e a Dio stesso. Un Dio misericordioso è pietoso, lento all'ira, è memoria di ciò che egli ha fatto per liberare il popolo dalla schiavitù e di quanto compie per introdurre il popolo nella terra della promessa.
Questa esperienza di presenza, va costantemente attualizzata, è resa anche per noi condizione stabile a cui corrispondere i tempi della nostra esistenza. I 40 giorni di Mose con Dio, lo stare alla sua presenza portano il rivelarsi della legge, delle dieci parole, che sono la vita stessa del popolo; questo concetto va recuperato costantemente per non smarrire l'esperienza della presenza di Dio nella nostra vita, oggi.

La fedeltà premia sempre ...

Esodo 32,15-34 e Matteo 13,31-35

Santi Gioacchino e Anna

A Gerusalemme lungo la strada che dalla Porta di Santo Stefano (o Porta dei Leoni) congiunge alla Via per Porta Damasco; inserendosi nel tragitto alla terza stazione, bella Via Crucis, troviamo la casa dei genitori di Maria, Gioacchino e Anna.
Sarà una coincidenza oppure una rielaborazione storica, ma quella casa si trova in un luogo che è carico di particolare significato: in quel luogo è il ritrovamento della Piscina Probatica, dove Gesù guarisce un paralitico, e forse anche dove venivano lavate le pecore per il sacrificio nel Tempio. È una Piscina di Misericordia, appunto, in ebraico Betzaeta, "casa della Misericordia".
Ma collocando nello stesso luogo la casa a Gerusalemme di Gioacchino e Anna, non possiamo non legare a tutto ciò la fedeltà di chi nell'amore, mai ha dimenticato la propria appartenenza a Yhwh. Nella fedeltà a Dio sta tutta la sua Misericordia, ovvero il fiume di grazia che percorre il tempo e la storia.
Il popolo di Israele, ha sperimentato l'aridità dell'infedeltà al nome di Yhwh, amare un vitello d'oro uscito da una fornace di fuoco. Ma quel Dio non conduce da nessuna parte. L'amore di Yhwh per noi, oggi, è lo stesso amore di cui Dio ha riempito le sue promesse, e la vita di coloro che nella fedeltà si sono abbandonati alla Sua Misericordia: questo abbandono è sempre premiato dalla Sua vicinanza.


domenica 25 luglio 2021

Dalle sue mani: Pane e Chiesa

 

2Re 4,42-44; Sal 144; Ef 4,1-6; Gv 6,1-15

Il brano della moltiplicazione del pane e dei pesci sul lago di Tiberiade, raccontato nel sesto capitolo di Giovanni, ci accompagnerà per diverse domeniche.
Lo sguardo che vorrei assumere questa volta non è quello solito per recuperare il senso eucaristico del pane della vita.
Ma quello di portarci a comprendere come proprio a partire da quel pane nasce e vive la Chiesa, che noi possiamo essere.
Se infatti oggi possiamo denunciare una carenza è proprio in ragione di questa disaffezione al pane.
Troppi pochi cristiani mangiano quel Pane ...
Oggi è un Pane dei vecchi; il pane della prima comunione; il pane delle solennità ...
Ma scusate cosa c'entra questo ridurre il pane a degli eventi con la chiesa di Cristo.
Se mangiare il pane è un privilegio di quando sono confessato, ed è solo una questione di purità legale ... Cosa c'entra l'eucaristia con la mia appartenenza alla Chiesa?
Chi fa la Chiesa oggi?
Oggi sembra che la Chiesa dipenda proprio nel suo esserci e non esserci, dal numero ...
È il numero fatto da noi; dal quanti siamo, letto in vario modo: sociologico, spirituale, morale e culturale. Il criterio dell'esserci o meno della Chiesa è saldamente una nostra prerogativa. (… una nostra prerogativa)
Ecco, già da questo comprendiamo che abbiamo palesemente fallito.
Quel giorno, invece, sul lago a Tabga è accaduto qualcosa di straordinario, e non è solo il miracolo del pane moltiplicato e condiviso; ma in forza di quello, e insieme a quello, è "accaduta a Chiesa". Gesù ha parlato e agito per generare a Chiesa con quella gente.
E ogni volta che c'è quel pane di mezzo, e lascio fare a Gesù, ecco sbocciare la Chiesa.
Ma se io mi impossesso del pane e metto ai margini della quotidianità Gesù, ecco che non nasce la Chiesa, ma una brutta caricatura della Chiesa.
Io al massimo sono capace di generare una congrega, o una Istituzione di carattere religioso che produce servizi, quella che io chiamo, scherzosamente, la bottega del parroco.
Quel giorno a Tabga sul Lago, Gesù alza lo sguardo e vede la gente. Una folla che non è stata chiamata, convocata per l'occasione, si è autoinvitata; vuole essere dove è Gesù, lo cerca, lo vuole ascoltare ne è attratta. È nata una relazione spontanea e personale ...
E Gesù se ne è accorto. Ma come fare sì che questa relazione non si esaurisca, non si consumi inutilmente e non si disperda in un nulla?
Ecco che Gesù pensa di custodire quella vicinanza, di prendersene cura. Lui stesso prende in mano la situazione e la gestisce direttamente. E anche coinvolgendo Filippo, mette in evidenza che né la gente, né i discepoli sono capaci di fare voi che solo lui è capace di fare e suscitare.
Gesù non ci scarta, prende il nostro poco pane (cinque ogni d'orzo e due pesci) e da quel poco fa nascere la Chiesa, perché tutti mangiano del poco, e tutti si saziano. Quel pane e pesce tutti rende uniti e fratelli.
È una appartenenza bellissima, nessuno è escluso, e nessuno ne deve restare fuori. Non è una istituzione religiosa, una affiliazione morale.
E’ desiderio, è voglia e gioia di fare parte di un mistero che Gesù dona dalle sue mani.
La Chiesa non passa dalle formalità istituzionali, essa è il frutto di una intima relazione con il Signore. Siamo Chiesa, se ne facciamo parte a partire da quella intima comunione con Gesù. Diversamente la Chiesa sarà sempre un problema, o morale, o legale, o religioso spirituale ... Fino anche un problema liturgico. Ma essere Chiesa è in realtà esserci come amici e fratelli fra di noi, insieme a Gesù per mangiare il suo pane, un pane che ci nutre nell'essere Chiesa.

sabato 24 luglio 2021

Il sigillo dell'alleanza

Esodo 24,3-8 e Matteo 13,24-30


Le promesse fatte ai Padri e l'esperienza della liberazione, trovano ai piedi del monte Sinai la loro consacrazione in un segno che realizza per sempre l'alleanza tra Dio e il suo popolo. Il logo del Monte è immagine del tempio: l'altare, i sacrifici, le dodici steli, il sangue, il ruolo sacerdotale esercitato da tutto il popolo; tutto rimanda a un evento culturale di una esperienza religiosa codificata e capace di esprimere l'assenso alla proposta di Dio: "Tutti i comandi che ha dato il Signore noi li eseguiremo!... Quanto il Signore ha ordinato noi lo faremo e lo eseguiremo!"
Sono due gli elementi che sanciscono formalmente questa alleanza: il banchetto e il sangue.
Il banchetto: "Nessuno può vedere Dio e rimanere in vi­ta"; al Sinai si direbbe che Dio abbia fatto un'eccezione. Lo stesso v. 11b ci infor­ma, in una rapida sequenza nar­rativa, di ciò che avvenne sul Sinai: "Essi videro Dio e mangiarono e bevvero". Questo banchetto tradizione tra i contraenti di un patto, ha la funzione di instaurare la familiarità e la conoscenza reciproca.
Il sangue: Il sangue nella mentalità biblica simboleggia la vita, fino a suggellare il cosiddetto "patto di sangue", un accordo da osservarsi perché impegna la vita dei contraenti: essi si appartengono reciprocamente perché hanno messo in comune il sangue, si sono cioè comunicati l'un l'altro la propria vita.

venerdì 23 luglio 2021

Cristo ci ama ... e come!

Galati 2,19-20 e Giovanni 15,1-8

Santa Brigida patrona d'Europa - Sant'Apollinare patrono Emilia Romagna

Per Gesù e per gli ebrei suoi contemporanei, l'immagine della vite ha un significato chiaro e immediato: essa è Israele. Di lei il Padre, Yhwh, si prende cura, la pianta nel luogo della sua promessa, la custodisce, la pota e ne accompagna la produzione dei frutti abbondanti. Di fronte questa immagine di tradizione, Gesù compie una scelta che sbalordisce i discepoli: assume in se il senso e il significato dell'immagine.
Questa rielaborazione avviene nel contesto dell'ultima cena, dove l'evangelista Giovanni colloca i discorsi definiti di "addio". In questo clima particolare risuona "io sono a vera vite". Di fronte alle attese dei tempi passati, di fronte alle speranze dei patriarchi, di fronte alle vicende di schiavitù e deportazione, di fronte ad un popolo che spesso a scelto l'infedeltà all'alleanza, cosa significa dire "io sono la vera vite"?
Gesù  è  quella  vite  che, a differenza di tutto ciò che lo ha preceduto può rispondere in pienezza alle attese di Dio, quel germoglio che docilmente si lascia piantare nella terra dell’uomo e che produce un frutto che rimane per sempre; da quel frutto ogni uomo potrà trarre  il  vino  nuovo  della  gioia  perché  da  quel  frutto  sgorga  la vita.
Gesù afferma qualcosa di rivoluzionario in quel "Io sono la vite, voi i tralci", Gesù-vite spinge incessantemente la linfa verso ogni tralcio, verso l'ultima gemma, e questo dipende solo da lui che io dorma o vegli, e non dipende da me, dipende da lui, io posso solo nutrirmi della sua linfa vitale. In quella immagine Gesù ci fa conoscere come anche in noi scorre una linfa vitale e feconda che è l'amore del Padre. Quell'amore che è linfa è lo stesso amore di Gesù per me lo stesso amore di cui io posso fare parte con i miei fratelli.

giovedì 22 luglio 2021

Va’ dai miei fratelli e di’ loro ...

Cantico 3,1-4 e Giovanni 20,1-2.11-18

Festa di Santa Maria Maddalena

Nella preghiera dopo la comunione, della messa di oggi è scritto: "La partecipazione ai tuoi santi misteri infonda in noi, o Signore, l’amore fedele che unì sempre santa Maria Maddalena a Cristo, suo Maestro".
Quell'amore che fa di Maria Maddalena la prima "apostola" della risurrezione. Ma come lo fu per i discepoli più intimi e stretti di Gesù, da quel momento, e in conseguenza del Vangelo, Maria di Magdala è, anche per noi, apostola del risorto. Anche per noi sono le parole di Gesù: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”.
Solo un amore fedele può convincere che Gesù non è lontano, solo chi ama intimamente non sente la separazione come un allontanamento, una sottrazione, ma lo vive come attesa di pienezza. Il salire al Padre di Gesù risorto è in questo senso attesa e pienezza insieme; una condizione propria è realizzata solo, già da ora nel risorto. Per noi, suoi discepoli oggi è tutto in divenire sia l'attesa che il compimento.
Maria di Magdala viene collocata da Gesù in questo dinamismo per mostrare il legame di amore che tutto rende possibile e vero. È in forza del suo "dire" ai discepoli, che questi superano la paura della crocifissione e del sepolcro, per incamminarsi con gioia nel mondo come annunciatori dell'amore del Signore.
Anche per noi oggi risuona del "dire" della Maddalena: "salgo al Padre mio è tuo ...", ma tu sei già con me, apri il tuo sguardo nell'amore, e vedendo me, amando e lasciandoti amare, vedrai anche il padre.

mercoledì 21 luglio 2021

La libertà al prezzo di quaglie e manna!

Esodo 16,15.9-15 e Matteo 13,1-9


Basta un mese di cammino nel deserto per azzerare ogni entusiasmo, ed estinguere ogni ricordo delle opere di Dio. Dio ha liberato il popolo dalla schiavitù dell'Egitto, ma ciò che rimane ora è solo una deludente consapevolezza: "... ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine."
Le nostre aspettative sono tremende, i nostri desideri ci illudono, i progetti poi preparano spesso nuove delusioni. La liberazione dalla schiavitù non rappresenta un evento magico e soprattutto indipendente anche dalla nostra capacità di lasciarci liberare realmente. La liberazione non si esaurisce nell'azione di uscire dall'Egitto! La liberazione coinvolge tutta la vita della persona nel reagire a quelle limitazioni della libertà che sono le nostre piccole e grandi schiavitù. In Egitto si sperimenta la consolazione della "pentola" cioè, la compensazione di ciò che permette di superare i bisogni affettivi, di stima è di potere ..., con le energie di quella pentola diamo valore a ciò che siamo, ma generalmente non è libertà, ma è una consolazione illusoria.
La liberazione come evento è una condizione quotidiana; è l'esperienza di quelli che si lasciano accompagnare dal liberatore, da Dio. Ecco che Dio non solo ti porta fuori dalle schiavitù d'Egitto, ma proprio nella fatica di quel primo mese, la liberazione corrisponde a scegliere Dio (la manna e le quaglie) invece della pentola d'Egitto.
Se la mia schiavitù quotidiana è data dagli affetti, e si esprime nel possesso rispetto agli altri, la vera libertà è la condizione di solitudine dove recupero il valore dell'altro nel rispetto e come priorità, riscoprendolo come dono che mi viene dall'altro. Ecco che la libertà ha sempre a che fare con il dono che Dio fa di sé stesso nella quotidianità della vita. Dio si propone come parte della mia libertà.

martedì 20 luglio 2021

Il Signore sospinse il mare ... e apre la strada al suo popolo.

Esodo 14,21-31 e Matteo 12,46-50


Passare attraverso il mare, questo racconto di Esodo descrive un passaggio chiave: se in Egitto, schiavi erano semplicemente clan tribali famigliari, aggregati tra loro, ora tutti si identificano in un unico popolo. È in questo passaggio dalla schiavitù alla libertà che nasce l'identità del popolo di Dio. Questa genesi non riguarda solo Israele, ma da un lato rappresenta il compimento delle promesse fatte ai padri; dall'altro, anche il particolare legame che da quelle promesse ci permette di giungere a noi, che ci fregiamo di essere il "nuovo popolo di Dio". Papa Francesco in una data catechesi richiama il concetto di popolo:  "la nostra identità cristiana è appartenenza!" Siamo cristiani perché apparteniamo alla Chiesa. È molto bello notare come questa appartenenza venga espressa a partire dalle promesse di Dio ai padri, ad Abramo,Isacco e Giacobbe. In questo modo Egli si manifesta come il Dio che ha stretto un’alleanza con i nostri padri e rimane sempre fedele al suo patto, e ci chiama ad entrare in questa relazione che ci precede. Questa relazione di Dio con il suo popolo ci precede tutti, viene da quel tempo. 
Essere popolo significa appartenere a Dio, perché Dio è fedele a ogni membro del suo popolo, singolarmente e nell'insieme.
Quando noi oggi parliamo di comunità, ci limitiamo a un contenuto di comunione e di condivisione, ma dal Concilio Vaticano II, viene recuperata questa categoria di Popolo di Dio, come espressione e concreta di una speciale appartenenza. Io appartengo a Dio, egli a cura di me in tutto, questa relazione appartiene a tutti i suoi figli; essi insieme sono  popolo della promessa.

lunedì 19 luglio 2021

Dio garantisce ma libertà guadagnata.

Esodo 14,5-18 e Matteo 12,38-42

Il racconto di Esodo di oggi, si snoda secondo uno schema che diventerà consueto e ripetuto, per tutto il viaggio nel deserto: Dio ordina a Mosè e al popolo cosa deve fare; il popolo critica, ha paura, si ribella, protesta; Mosè compie un segno; il popolo vede, si converte, acclama, loda e torna ad avere fiducia.
In questa pagina possiamo rivivete tutti i nostri slanci, i nostri tentennamenti; l'orizzonte delle scelte, il coraggio determinato e la fragilità del scegliere e andare; il ripensamento, il timore la sfiducia.
Altro riquadro interessante è il faraone, che dopo tutte e prove torna ad essere ostinato, quasi a ricordarci la nostra ottusità e durezza rispetto al cambiamento, alla conversione del cuore. Nella pagina, il faraone si mostra convinto di poter riprendere facilmente i fuggitivi, diretti verso la zona paludosa dei Laghi Amari. Se a momenti la fuga, o per noi la liberazione, sembra destinata al fallimento; nel momento della criticità, Dio si mostra ancora una volta colui che è fedele alle promesse, è lui che è sceso a liberare il popolo dalla schiavitù. Non ha solo visto Mose come Dio emissario, ma Dio stesso opera e agisce nel determinare quella storia. Dio, infatti, si coinvolge attivamente nella storia di Israele e di ogni uomo, al di là di ogni fatica e resistenze che possiamo sperimentare e mettere in atto.
Non c'è più quindi, una notte di tenebra, ma la notte è quella della libertà, dove fatta esperienza del passaggio, mai più torneremo sui nostri passi per essere schiavi; nemmeno se percorsi da mille tentazioni.

domenica 18 luglio 2021

Ripartiamo dall'ABC della missione.

Ger 23,1-6; Sal 22; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34


Già domenica la parola di Dio ci ha introdotto nella "missione" che Il Signore affida, inviando i suoi discepoli. Un invio in missione che lo possiamo esprimere come essere il sogno di Dio: un mondo guarito per opera dei discepoli di Gesù nelle sue ferite; un mondo pieno vita e di speranza; un mondo senza demoni del male; un mondo in cui siano possibili relazioni armoniose e felici; un mondo di porte aperte e brecce nelle mura.
È questa l'immagine che possiamo vedere rileggendo il Vangelo di questa domenica, che prosegue nella narrazione di ciò che è accaduto dopo l’invio in missione. Ma come si realizza tutto questo, da dove occorre partire?
Quando noi pensiamo alla missione, generalmente identifichiamo il tutto con l'agire dei missionari in terre lontane o in parti del mondo che vivono problemi economici e sociali.
Ci siamo talmente formalizzati nelle strutture ecclesiali, che dire missione e significa spesso e volentieri dire: Pontificia Opera Missionaria, le raccolte missionarie o l'ottobre missionario. Opera missionaria che per decenni ci ha assolto da ogni prospettiva personale e comunitaria circa la missione della Chiesa; grande cosa è la delega,  ma in questo caso è stato molto e più che altro un deresponsabilizzare.
Occorre ripartire dall'ABC ...
Occorre ripartire dalle domande di fondo: A cosa serve annunciare il Vangelo? Cosa c'entra la mia vita con questo annuncio?
Quale opera di Dio si innerva nella nostra missione? 
Quale rapporto tra la mira missione, il nostro essere Chiesa e Gesù Cristo?
Sono domande a cui il Vangelo di oggi, profeticamente, cerca di dare risposta.
Partiamo dal fatto che il Vangelo non è un imparaticcio di precetti morali da insegnare ai bambini del catechismo e da richiedere come atteggiamenti esistenziali agli adulti di una comunità.
Che cosa è il Vangelo se non la parola di Gesù, è ciò che Gesù insegnava, condivideva, offriva e donava alle persone nell'incontro con loro, al punto che attratte da lui lo cercavano.
Il Vangelo è allora l'esperienza di essere stati toccati dalle parole di vicinanza, di amore, di compassione, di tenerezza, di accoglienza del Signore; al punto che quelle parole si radicano nella vita, e quando siamo inviati nel mondo non portiamo una vita diversa da quella che ha incontrato le parole di Gesù.
Se questo è vero, prima ancora di riforme sociali, aiuti economici, istruzione e beni di prima necessità, l'annuncio missionario ha come fine incontrare l'uomo nella sua normalità e quotidianità;  nella povertà e anche nel suo limite e diversità; ma è quell'incontro che diviene lo spazio in cui la parola di Gesù risuona e cerca casa ... Si ripete l'immagine: "... egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose".
Gesù di fronte alla pochezza dell'uomo la vuole toccare e sanare con la sua parola. L'uomo ha bisogno di essere nutrito nel suo esistere, allo stesso modo in cui si nutre totalmente una persona umana.
C'è tanto da fare, ma l'invio in missione non significa gettarsi nel vortice del dolore e della fame, prima occorre arrivare al cuore dell'umano. 
Come al solito qualcuno potrebbe dire: ci sono problemi più urgenti da risolvere: guarire, sfamare, liberare; bisogni più immediati che non mettersi a insegnare - invece Gesù si mette a insegnare - Forse abbiamo dimenticato che c’è una vita profonda in noi che continuiamo a mortificare, ad affamare, a rendere arida, e disumana. 
Oggi viviamo la cultura del reddito e della produttività; degli impegni, al punto che sembrano uniche a dare valore alla vita. Ma Gesù ci insegna che la vita vale indipendentemente dai nostri impegni,dal nostro reddito e dalla nostra capacità di produrre ricchezza. Tutto questo significa che anche il nostro modo di vivere la missione l'essere inviati va ripensato a partire proprio da Lui, da Gesù. Per molti questo non è e non sarà facile, per molti cresciuti nel tempo delle fare delle istituzioni, il cambiamento può fare paura e forse non lo si riuscirà a mettere in atto, ma oggi a chiesa ci chiede una vera crescita bella coscienza di discepoli. Stare con Gesù in disparte significa prendere coscienza di come dobbiamo essere missionari. 
Oggi, va ripensato il nostro invio a partire da una particolare attenzione ai fratelli, dalla benevolenza gratuita che rappresenta l'unico modo cristiano di strade di fronte e con l'altro, cioè volergli bene.
Oggi questa è la missione dei discepoli di Gesù: immettere una bella e umana vita,  nella vita dei fratelli, attraverso il nostro incontro con le parole di Gesù, che stranamente corrispondono alla verità più profonda di ciascun uomo.


Inviato da iPad

sabato 17 luglio 2021

Una notte di veglia per sempre!

Esodo 12,37-42 e Matteo 12,14-21


La memoria dell’uscita del popolo di Israele dall’Egitto, o meglio sarebbe dire dei discendenti di Giacobbe, dei clan famigliari legati ai figli di Giacobbe e Giuseppe, viene enfatizzata con l’esagerazione delle cifre: seicentomila uomini, la grande massa di gente, e anche i quattrocentotrent’anni di permanenza in Egitto, mentre noi conosciamo solo il tempo della generazione di Giacobbe e di Giuseppe, e poco più, fino al faraone che non aveva conosciuto Giuseppe. Ma tutto questo mette in evinca la centralità che ha l'Esodo per tutta la narrazione che seguirà, fino a quando nascerà veramente il popolo di Dio ed entrerà nella terra della promessa.
Questo avvenimento è al cuore della notte di veglia, la notte memoriale dell'uscita. La cottura delle focacce azzime con la pasta non lievitata stabilisce, uno dei cibi essenziali della cena pasquale. Il pane azzimo dice la fretta generata da quella notte di salvezza. Inoltre mi sembra che il testo voglia mettere in evidenza la grande povertà di questa gente  – non hanno neppure le provviste per il viaggio –, un particolare che lo consegna interamente all’amore del suo Signore. Quella notte diventa il cuore della fede e da quella notte trae origine la sapienza di Israele: la sua liberazione è dono di Yhwh. È stata una veglia, quando il Signore li ha fatti uscire dal paese d’Egitto. E sarà una veglia in onore del Signore per tutte le generazioni di Israele, anche  per Gesù fino all’ultima cena, e nel suo ripetersi come memoriale in ogni eucaristia.

venerdì 16 luglio 2021

La Pasqua Ebraica

Esodo 11,10-12,14 e Matteo 12,1-8


Le origini della festa di Pasqua si perdono nei tempi, dove le tribù nomadi di pastori, immolavano gli agnelli come rito propiziatorio per allontanare i pericoli che minacciavano le greggi; immolazione a cui seguiva un vs cheto notturno con canti e danze. Se questo può essere l'origine per la componente nomade e dedita alla pastorizia; per la componente dedita alla agricoltura, la festa si concentrava nell'offerta delle primizie, i primi frutti (l'orzo) in occasione del plenilunio di primavera. 
Quando le tribù nate dal clan di Giacobbe, e non solo, si trovano a sperimentare la schiavitù in Egitto, questo fare festa si trasforma radicalmente nell'evento che segna l'inizio del nuovo popolo: la liberazione e dalla schiavitù.
La liberazione coincide con la festa, ecco che allora la festa diviene per sempre il memoriale della liberazione e della nascita del popolo di Israele.
L'uscita dall'Egitto diviene concretamente un avvenimento-segno degli eventi di salvezza che caratterizzeranno tutto il tempo dell'esodo.

Scrivere il modo di celebrare ma Pasqua, serve per conservare nella memoria del popolo il ricordo di quella notte di veglia nella quale nasce Israele: la festa diviene memoriale di generazione in generazione dell'esperienza della salvezza e cessa di essere un semplice fatto storico. Anche noi spesso ci aggrappiamo ai nostri ricordi per trovare consistenza e forza nelle nostre fragilità, ebbene, Israele, al ricordo di quella notte si aggrappa invocando la forza della vicinanza e misericordia di Yhwh.


giovedì 15 luglio 2021

Esisto con voi

Esodo 3,13-20 e Matteo 11,28-30


Il punto principale di questa pagina di Esodo è la questione del nome di Dio. Mosè chiede di conoscere il nome di colui che gli parla dal roveto e che lo sta in rimandando in Egitto, la da dove era fuggito. La risposta è enigmatica, come già lo è stata nel dialogo tra Dio e Giacobbe nella lotta allo notturna prima di passare il Giordano. In questo caso la risposta  lascia intendere, in prima istanza, che Dio non può essere manipolato dall’uomo né piegato ai suoi interessi immediati.
L'espressione utilizzata: "Io sono colui che sono!" è un modo con cui in ebraico si vuole significare quanto in italiano esprimiamo con l’ausiliare “volere”, indica quindi che Dio non è determinato nel suo essere se non da se stesso, dalla sua volontà, dalla sua libertà. Che cosa concretamente Dio sia e voglia essere, diventa chiaro alla luce della missione di Mosè, alla quale è direttamente collegata la rivelazione del Nome. Infatti tale  missione indica il luogo dove si rivela il nome (agire e volontà) di Dio. Questo nome divino si identifica quindi con la volontà di salvare il popolo e di iniziare una storia di liberazione, Dio mostra la sua volontà di farsi vicino a Israele per sottrarlo alla schiavitù.

Una seconda considerazione ci porta a riconoscere il verbo “essere”, in ebraico, quanto forma attiva , ovvero esistenza quanto si esercita e si manifesta con la sua stessa attività. "Essere" è quindi "essere in rapporto" agli altri esistenti, è "essere in relazione". Il vero senso dell’espressione ebraica sarebbe dunque: "Io esisto davvero per voi, con voi".

mercoledì 14 luglio 2021

Effetti della manifestazione concreta.

Esodo 3,1-6.9-12 e Matteo 11,25-27


Tutti conosciamo il brano di Esodo del roveto che arde e non si consuma, ma questa conoscenza in realtà non ci favorisce nel meditare questa parola. Occorre infatti fare un passo indietro e ricordaci quel Mosè, fuggiasco, migrante che per varie vicende ritorna a vivere la condizione dei padri (Abramo, Isacco e Giacobbe): erano nomadi, allevatori di greggi ..., abitanti delle stelle e dei deserti; ma proprio in quella loro conduzione di vita, entrarono in contatto con Dio. A loro Dio si manifesta per essere il loro Dio per sempre, e consegnare a loro e alla loro discendenza una promessa che caratterizzerà tutta la storia della salvezza nel suo compiersi. È in questo cambiamento di vita che Mosè è costretto a fare, che si inserisce questa reciprocità di sguardi, curiosità e ascolto tra Lui  e Dio. Mosè vede, incuriosito si avvicina e si sente smarrito incapace di reagire adeguatamente. Dio vede, anzi,sembra quasi che Dio abbia spiato tutto il suo agire, e ora nella pienezza di questo guardarsi reciproco, Dio parla, parla come fece ai padri.
Si apre per Mosè l'esperienza dell'ascolto delle parole dell'onnipotente. L'incontro con Dio non ha nulla di virtuale, tutto si immerge nella concretezza del vedere e dell'ascoltare. Questa manifestazione produce anche una immediata concretezza: una chiamata, una vocazione, una missione ... Ma non come esaltazione di una figura idealizzata del futuro liberatore, ma come immersine di Dio nella vita di un uomo ormai marginale. Una dinamica è una possibilità che può ripetersi anche oggi in tante situazioni che a prima vista sembrano senza via di uscita.

martedì 13 luglio 2021

Nascita di Mosè

Esodo 2,1-15 e Matteo 11,20-34


I primi due capitoli del libro dell’Esodo raccontano l'oppressione dei figli di Giacobbe in terra d’Egitto e la preparazione del liberatore. Il tema di fondo è riassunto nei versetti conclusivi: Gli Israeliti soffrivano per la loro schiavitù e alzavano forti lamenti. Dal profondo della loro sofferenza il loro grido salì fino a Dio... Dio guardò verso gli Israeliti e prese a cuore la loro condizione (2,24-25). È questa una situazione ricorrente nella Bibbia: il grido dell'oppresso e il soccorso di Yhwh, un soccorre che si dispiega nel tempo e nelle nostre stesse vicende umane. A volte sembra che Dio stia in silenzio, sembra restare indifferente ai drammi del mondo e solo dopo molto tempo si decide ad agire. Spesso i “tempi lunghi” di Dio nel dare risposta al grido dei poveri, in contrasto con la nostra pretesa di avere riscontri “in tempo reale”. Dio agisce, ma non con i tempi di Internet! 
I tempi di Dio si rivelano nei tempi di Mosè. Chi è questo personaggio? Dio per realizzare i suoi progetti, parte da un bambino, sfuggito alla condanna a morte del Faraone, ma è un bambino già segnato da update una storia tragica. Mosè appartiene alla tribù di Levi, tribù maledetta in Israele a causa della violenza del figlio di Giacobbe che ne è il capostipite. Era l’ultima delle tribù, anche se poi diventerà la tribù sacerdotale. Da questo suo essere ultimo nella appartenenza, Yhwh prepara il riscatto di queste tribù schiave che diverranno il suo popolo.

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lunedì 12 luglio 2021

Cancellazione delle promesse

Esodo 1,8-14.22 e Matteo 10,34-11,1


L'ingresso di Giacobbe non Egitto e con lui, di tutto il suo clan tribale (i suoi figli e le loro famiglie), è stata raccontata in Genesi come un evento partecipativo dell'agire provvidenziale di Dio, che in questo modo ha conservato in vita il suo popolo, e ha affidato alla provvidenza, nella figura di Giuseppe e nella sua vicenda, il compimento delle promesse fatte ai padri. Ora, ancora una volta, questa narrazione di salvezza e di compimento, viene messa la prova ed è fortemente contrastata. Se la migrazione in Egitto era un tempo di attesa e compimenti per entrare in possesso della Terra, ora quel tempo di schiavitù non garantisce più la possibilità di dare seguito alla promessa fatta ai padri. Tutto ora sembra muoversi in una opposizione snervante e risolutiva rispetto alla predilezione di Israele come popolo di Dio. Ma se la schiavitù rinnega il possesso della terra, lo sterminio dei figli maschi mina la posterità, l'essere fecondi e riempire la terra. Così anche l'oppressione e il duro lavoro trasformano il popolo numeroso come me stelle del cielo e libero, in una massa di schiavi per lavori forzati. Tutto questo rappresenta ben di più del mettere alla prova il popolo, ma è l'inizio del tentativo di destrutturare il processo attraverso il quale si genera l'identità del popolo di Israele. La libertà infatti, è il punto di partenza per crescere nella consapevolezza del compimento delle promesse.

domenica 11 luglio 2021

Missionari, non comunisti, non sovranisti.

Am 7,12-15; Sal 84; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13


Per molto tempo abbiamo idealizzato, in un mondo ritenuto cristiano, l'invio a due a due dei discepoli, come una immagine dell'annunciare il Vangelo al fine di incrementare la Chiesa, come estensione territoriale, come appartenenza, come una sorta di impero di Cristo.
Ma quando la Chiesa nel concilio Vaticano II è entrata nella secolarizzazione del mondo, da quando la Chiesa ha accettato il confronto con la globalizzazione e ora con un modo digitale, dove tutto è di fronte a tutti, e dove le differenze tra ricchi e poveri, tra nord e sud del mondo, diventano evidenti, e spesso giustificate dalle logiche della finanza, si ripropone con urgenza e forza il senso, per chi crede, dell'essere mandati.
Nel Vangelo ci sono tre snodi che rappresentano altrettanti punti fermi:
Gesù chiamo i dodici a sé per mandarli ...
Una evidenza esplicita: essere discepoli di Gesù implica essere mandati. Siamo dei mandati a questo nostro mondo. Superato il colonialismo e l'idea dell'impero cristiano, superato in confronto/scontro con la modernità, Gesù ci manda in questo mondo, che è il nostro; ci manda "due a due", a partire dal nostro essere insieme, dal nostro essere comunità. Significa che nessuno può pensarsi in una posizione di stasi, di passività, di rinuncia all'azione. Se ci pensiamo statici, non siamo più cristiani, siamo qualcosa di altro (una congrega), ma non discepoli mandati da Gesù.
Inviati in questo mondo per confrontarci con il mondo, per dialogare con il mondo, non per imporci sul mondo. È molto diverso il modo in cui Gesù oggi ci chiede di andare a liberare il mondo dal male, rispetto a quanto pensavano i nostri genitori, i nostri nonni. Oggi siamo invitati a stare in un mondo che non ci riconosce, che non ci stima, che spesso ci giudica; ma rispetto al quale noi non possiamo rinunciare a starci dentro. Anche se il mondo andasse per una strada avversa, noi siamo inviati a stare insieme a questo mondo. Dobbiamo entrare nella logica che il Vangelo entra in dialogo con il mondo non perché il mondo è cristiano, ma proprio perché non lo è. E in questo dialogo suggerisce alla mentalità umana nuove vie da percorrere nella umanizzazione, cioè nel rendere l'uomo consapevole della sua umanità, per giungere, se Dio vorrà a riconoscersi figlio.
Non prendere nulla con sé ...
Inviati senza nessuna certezza, nessuna forza legata al potere. Che bella Chiesa che non conti più nulla, che non sei più una forza politica, che non hai più amici a cui affidare i tuoi interessi, e quando ricerchi vecchi schemi Ruiniani, tutto ti crolla addosso e ne vieni svergognata.
L'unica tua forza è la verità del Vangelo che annunci. Prendi con te solo la Parola capace di dare speranza, di suscitare la vita nuova, capace di guarire le ferite e di consolare i cuori affaticati e oppressi. Una parola capace di ricordare ai fratelli che diamo parte della sofferenza dell'altro.
Ed essi partirono e proclamavano che la gente di convertisse ...
E a questo punto si manifesta il modo di realizzare questa missione che Gesù ci affida, in cui Gesù ci immerge e ci precede.
Oggi possiamo dire: "Signore, abbiamo vissuto le tue parole fono in fondo, alla lettera (sine glossa), e abbiamo portato a termine la missione affidata ... Abbiamo proclamato alla gente che si convertisse ... Abbiamo abitato le loro case, liberto dagli spiriti impuri, vissuto la sobrietà ..."
Ma forse  ... non è proprio così ... Ci stiamo forse auto-convincendo che tutto va bene così?
Non stiamo proclamando di convertirsi al Vangelo, perché noi siamo i primi non convertiti ... che della vita cristiana ne facciamo ciò che vogliamo.
Non viviamo la povertà e la sobrietà, nonostante la crisi economica, e la pandemia,  ora in verità abbiamo elaborato uno scopo: usare delle nostre ricchezze per noi stessi, per garantirci la vita, la nostra, incuranti spesso dei drammi umanitari che si susseguono attorno a noi. Ci assicuriamo un benessere minimo e garantito... Altro che due tuniche ... ne abbiamo tre, quattro ... un guardaroba intero ...
Non viviamo il senso dell'ospitalità, prima di tutto perché non siamo più disposti ad ospitare nessuno in casa nostra ... Più di 670 vittime in questo anno nel nostro mare mediterraneo, dice l'indifferenza di tanti e il nostro tacere rispetto alle immigrazioni dei popoli. Facciamo i pigiama party, ospitiamo i figli degli amici, ma poi per noi l'ospite, l'uomo che deve essere ospitato, è come il pesce: "dopo tre giorni puzza ... "
Questo modo di percepirsi discepoli non ha nulla a che fare con l'essere attirati al Signore per essere mandati. Questa non è la Chiesa di Gesù e neppure il suo popolo ... Per esserlo occorre convertirsi al sogno di Dio: di un mondo da guarire nei suoi egoismi, pieno vita e senza demoni; fatto di relazioni diventate armoniose e felici, un mondo di porte aperte e brecce nelle mura.
Ma quando il popolo cristiano perde la sua identità missionaria, cioè rinuncia ad essere inviato, così come papà Francesco ci sollecita di continuo, diventa un non popolo senza fede, senza speranza di risurrezione e senza desiderio della vita eterna ...
Di fronte a questo Vangelo, conviene ammettere la nostra latitanza circa la chiamata esplicita di andare in missione a "due a due". La missione è fatica, ma è condivisione e amicizia fraterna ... con il Signore e con tutti.





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sabato 10 luglio 2021

Una bella conclusione

Genesi 49,29-50,26 e Matteo 10,24-33

La parola crea ed è efficace: è questo uno dei grandi doni della Genesi. La storia di Giuseppe ci dice qualcosa di nuovo: la parola è capace di ricreare anche le nostre relazioni spezzate, farle risorgere dalle tombe-pozzo dove continua a gettarle la nostra cattiveria. Lo sguardo conclusivo della narrazione ci riporta al cuore della Terra della promessa, lì dove ancora nomade, Abramo acquisto il terreno per la sepoltura di Sara. Un luogo che non è solo di morte ma di ricongiungimento, di intensa relazione. È possibile curare con la parola le nostre fraternità ferite, donando interpretazioni di storie che le risuscitano. È la possibilità di un’altra fraternità, più profonda e universale di quella del solo sangue, il dono più grande che Giuseppe continua a farci. Se la Scrittura ha quindi al cuore della narrazione della salvezza la storia dell’Alleanza e della Promessa una fraternità morta e risorta, allora il miracolo di un fratricidio che si trasforma in nuova fraternità è possibile, fa parte del repertorio dell’umano. E può ripetersi ovunque e ogni giorno, anche oggi.


venerdì 9 luglio 2021

Di promessa in promessa ...

Genesi 46,1-30 e Matteo 10,16-23 


A prima vista sembrerebbe che la promessa sia stata disattesa ... la Terra che Dio ha fatto calpestare ad Abramo, la stessa Terra sulla quale Isacco ha vissuto e nella quale Giacobbe è rientrato furtivamente; ebbene quella terra sembra ora allontanarsi dai sogni e dai progetti di questo popolo embrionale prescelto da Dio. Ecco infatti che ci  si allontana e si scende in Egitto, nella terra di Gosen.
Il testo di Genesi, è una confluenza di molte tradizioni e fonti, ma anche di strati che si collocano nel tempo a livelli molto distanti l’uno dall’altro, il tutto unificato in un racconto che è servito a creare la genesi della identità etnica e culturale dei Figli di Giacobbe, nel momento in cui entrano di nuovo nella terra di Canaa e vi si insediano stabilmente. Sarebbe riduttiva una lettura narrativa e semplicistica che non tenga conto di questa comprensione redazionale. Ecco che allora, la promessa fatta ad Abramo è ben più importante di quanto immaginano: la promessa della Terra si lega inscindibilmente a un popolo che la abiti; a una discendenza numerosa come la sabbia del mare e le stelle del cielo. Tutto in travaglio da una generazione all’altra serve a generare il popolo dei Figli di Israele, l’unico destinatario concreto della promessa della Terra. Ecco allora che la promessa di Dio non è disattesa, ma si compie secondo un itinerario che difficilmente si inquadra con la visione dei singoli patriarchi e di altrettanti condottieri.
Anche per noi la “promessa di Dio” si realizza al di fuori del contenitore nel quale vorremo custodirla gelosamente.
A questa sua originalità non riusciamo mai ad abituarci.

giovedì 8 luglio 2021

Il figlio amato è Beniamino!

Genesi 44,18-45,5 e Matteo 10,7-15


Uno dei temi esemplari è più belli della Genesi è l'amore del Padre per il figlio prediletto, così in questa stessa logica va colta la relazione tra Giacobbe e Beniamino, il figlio avuto nella vecchiaia e che egli ama.
Il tema del figlio amato non è frutto di sdolcinerie e tantomeno di una fragilità affettiva.  
Questo tema ha la sua radice nella vita concreta e di famiglia del patriarca Giacobbe; la storia inizia vicino a Efrata, nei pressi di Betlemme. All’ improvviso la carovana si ferma, Rachele la moglie di Giacobbe è colpita dalle doglie del parto e sta malissimo.

La situazione precipita: la madre, Rachele, entra in agonia. Ma la levatrice riesce a estrarre la creaturina: un maschio. La pone, ancora insanguinata, sulla madre per darle coraggio. Essa, con un filo di voce, mormora il nome da imporre al bambino: Ben-onî!, che in ebraico significa “figlio delle mie doglie”. E subito dopo muore. Giacobbe è travolto da due sentimenti contrastanti: l’immensa sofferenza per la perdita della moglie che tanto aveva amato più di tutte, e la gioia per quel bambino che gli ha donato proprio nell’ istante della morte. Ecco, allora, la sua decisione: il nome di questo piccolo non sarà triste come voleva la madre, ma sarà un augurio festoso. E Giacobbe gli impone il nome di Beniamino, in ebraico Ben-yamîn, “figlio della destra”, ossia “figlio della fortuna, della prosperità, del buon auspicio”.

uella città e scuotete la polvere dei vostri piedi. In verità io vi dico: nel giorno del giudizio la terra di Sòdoma e Gomorra sarà trattata meno duramente di quella città».


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mercoledì 7 luglio 2021

La narrazione della promessa continua

Genesi 41,55.42,24 e Matteo 10,1-7


Abbiamo abbandonato Giacobbe e siamo arrivati a Giuseppe. Nella narrazione dei patriarchi Giuseppe rappresenta una figura molto  interessante, da un punto di vista storico, come anche per il significato spirituale e Teologico che la sua vicenda rappresenta. Infatti la sua storia ci offre anche un sorprendente sguardo su come Dio opera sovranamente per sconfiggere il male e realizzare il Suo piano. Dopo tutte le sue sofferenze, Giuseppe fu in grado di vedere la mano di Dio all'opera. Quando rivelerà la sua identità ai fratelli, Giuseppe parlerà del loro peccato mettendo in evidenza non il male subito ma come tutto ciò che è capitato sia servito a condurre Israele (Giacobbe) in Egitto, e come Dio lo abbia mandato davanti a loro per conservarli in vita.
Questo racconto, molto diverso dalle narrazioni precedenti sembra volere unificare tutto nell'unico progetto di Dio che realizza in ogni modo la sua promessa, a partire da quella fatta ad Abramo.
Ancora una volta la narrazione ci suggerisce il desiderio di lottare affinché la vita possa sbocciare in tutte le sue possibilità come opera di Dio; le stesse vicende ci precipitano nello stupore che la misericordia e il perdono sono capaci di generare a partire dal male subito.
Inoltre oltre in Giuseppe permane quel legame che unisce trasversalmente i singoli patriarchi, è quel nome che Giacobbe porta con sè: Israele, questa è la paternità di Dio stesso verso il suo popolo, verso i figli che gli appartengono. In Egitto, questo popolo di figli si immerge educa nella promessa di Dio. 

martedì 6 luglio 2021

Una lotta ... L'abbraccio di Dio.

Genesi 32,23-33 e Matteo 9,32-38


Un brano misterioso, in cui si intrecciano la vicenda umana di un fuggiasco, Giacobbe, la tradizione delle divinità della terra di Canaa che erano a protezione dei luoghi e dei territori, il compimento della promessa e la realtà nuova che scaturisce dal nome e dalla benedizione.
Procediamo con calma. Lo Iabbok è un fiume affluente del Giordano che nell'antichità segnava il confine con la terra di Canaa. Passare il guado significa entrare in quella terra che è oggetto della promessa di Dio. Ma quel passaggio è anche il modo in cui Giacobbe affronta tutte le due paure e,raccolte le sue fragilità si dispone ad affrontare la realtà, il fratello a cui ha sottratto con inganno la primogenitura, carpendo la benedizione del padre Isacco. In tutta la vicenda umana che si dispiega davanti a chi legge, si inserisce l'agire di Dio, l'Altissimo, in quel corpo a corpo che obbliga Dio e l'uomo a toccarsi a stringersi l'un l'altro, ad entrare in una relazione che segna entrambi nel profondo. È in quella lotta che le promesse di Dio manifestano la loro concretezza e il compimento. È da quella lotta che la benedizione, ancora una volta, quasi una indebita appropriazione, viene a caratterizzare la vita di Giacobbe, come condizione nuova che si comprende nel nome che il patriarca riceve da Dio: Israele, un popolo, una nazione. 
Il misterioso intreccio, un poco per volta svela il suo fascino e la sua profezia, ma diviene per sempre condizione del cammino dell'uomo; un cammino che inevitabilmente porta al confine tra le promesse di Dio e le nostre certezze auto costruite.

lunedì 5 luglio 2021

Pure noi, dentro la promessa!

Genesi 28,10-22 e Matteo 9,18-26


Sembra di assistere a una replica, le promesse fatte ad Abramo, ora sono rivolte a Giacobbe, ma il senso non è semplicemente una riproposizione. La vicenda di Giacobbe figlio di Isacco e Rebecca, e fratello di Esaù. La sua storia complessa; il furto con inganno della primogenitura, fanno di Giacobbe un fuggiasco e un uomo dal destino incerto. Il sogno della "scala" che congiunge la terra al cielo, unisce ancora una volta, e oltre le nostre aspettative, quella storia molto umana di Giacobbe con la scelta di predilezione di Dio. Tale sogno gli permette, quindi, l’entrata nella sua vita di un’alternativa, di un futuro con Dio che gli promette: una terra, quella dove stava coricato; una discendenza; una presenza e la sua vicinanza; la sua protezione; il ritorno a casa, cioè quel luogo in cui egli si trovava e che consacrerà al Signore, chiamandolo Betel, cioè casa di Dio. 
Ma il sogno di Giacobbe è anche il nostro sogno, la nostra storia è unita al cielo, e le promesse di Dio a Giacobbe sono anche e nostre promesse, proprio perché Dio ha per ciascuno dei suoi figli una alternativa di pienezza, e di sua vicinanza. Questa terra nella quale viviamo, la possediamo nel momento in cui c'è ne prendiamo cura, nel momento in cui la custodiamo; noi stessi siamo sua discendenza, parte di quelle stelle del cielo, che rappresentano i figli di Dio. La sua promessa di rimanere con noi, risuona dal primo libro della legge (Genesi) all'ultimo libro della Bibbia l'Apocalisse: "vieni Signore Gesù".

domenica 4 luglio 2021

Due millenni di scandalo ...

Ezechiele 2,2-5 / Salmo 122 / 2 Corinzi 12,7-10 / Marco 6,1-6


Paolo, quando scrive la sua lettera ai corinzi, fa memoria della sua esperienza e del suo scandalizzarsi di fronte a Gesù, come anche del suo arrendersi al Signore.
La debolezza la fragilità del credere, in realtà è lo spazio preferito da Gesù per mostrare come la gloria e l'onnipotenza di Dio ben poco hanno a che fare con il vanto, l'onore e la sicurezza umana.
Tutto in Paolo si concentra nel riconoscere e testimoniare che la fragilità e la debolezza, divengono lo spazio di rivelazione del mistero di Cristo lui.
Anche noi incontriamo Gesù nella fragilità di noi stessi, in quello spazio aperto dalla "spina nella carne",  che non rappresenta la giustificazione morale alla fragilità, ma è lo spazio dove le nostre ferite, quelle date dalla nostra natura entrano in contatto con l'amore di Gesù per noi. Egli ci ama oltre le nostre fragilità.
È questo lo scandalo che a Nazareth si consuma quando Gesù torna tra i suoi.
Perché è incomprensibile un Dio umano come Gesù, che cosa c'entra con la potenza di Dio?
È possibile che la potenza di Dio si riveli in un carpentiere?
Come allora, anche per noi oggi è difficile accettare un Dio così concreto e umano, un Dio che non si nasconde dentro la teologia e nei dogmi ...
Il carpentiere di Nazareth, lo era allora, lo è oggi, è proprio il Dio con noi. Gesù porta direttamente al cuore della nostra vita quotidiana l'esperienza del Figlio di Dio e di Dio stesso.
L'immagine originaria della casa-Chiesa, che Gesù condivide, non è una clericalizzazione o trasformazione della casa in un piccolo Tempio, ma la possibilità di vivere nel quotidiano la fede che Gesù ha condiviso con i suoi discepoli. Noi siamo di scandalo perché clericalizziamo tutta la nostra esperienza di fede, cosa che Gesù non ha fatto.
È scandaloso un Dio fatto di carne ... È lo scandalo della Parola, cioè della rivelazione di Dio in un pezzo di storia umile e concreta. È lo scandalo di Dio che diventa uomo e incontra l'uomo nella vita quotidiana. È lo scandalo per chi vede Dio solo nelle liturgie e nei riti, ma non lo vede nella vita, non lo vede nei fratelli tutti, non nei poveri, non nei disperati, nei diversi e amareggiati, non nei lontani.
Scandalizza l’umiltà di Gesù e di Suo Padre, al punto di dubitare che sia proprio Dio. Non può essere questo il nostro Dio. Dov’è la Gloria e lo splendore dell’Altissimo?
Ma ancora una volta un Dio Altissimo è il Dio dei sacerdoti degli scribi di un tempo, come oggi è solo  il Dio clericale.
È scandaloso il Dio della vicinanza quotidiana, della tenerezza e della dolce misericordia. 
In verità ci scandalizza che Dio, abita a Nazareth, Cafarnao, Gerusalemme, Imola, Casola Canina ... Era scandaloso a quel tempo, figuriamoci oggi; Dio che vive nella prossimità!
Ma noi anche oggi, siamo circondati da profeti, magari piccoli, magari minimi, ma continuamente inviati. E noi, abitanti di una Nazareth attuale, non siamo disposti ad accogliere gli inviati di Dio. 
Invece occorre che ci scandalizziamo per recuperare completamente la visione di Gesù fondata sulla fede di ciò che è scandaloso e non di ciò che è razionalmente e rigidamente accettabile o corretto.
È proprio lo scandalo che fa permette all'uomo, al discepolo, di sperimentare che Gesù, il carpentiere, costruisce la croce che ci salva. Questa croce, scandalosa, la sua, che per noi è il trampolino per il cielo.
Questo permette di riconoscere come anche oggi, il Signore, rifiutato, agisce nella storia, anche della nostra comunità e nella nostra Chiesa Cattolica ...
Forse con presunzione di autosufficienza non siamo disponibili ad accoglie fino in fondo l'invito del Vangelo alla conversione missionaria e alla via nuova per la Chiesa del terzo millennio.
Ma sia che ascoltiamo come anche che non ascoltiamo la Sua parola, Dio continua a parlarci e ad amarci, e continuerà a ripetere quelle parole che sono quelle del suo Figlio.

sabato 3 luglio 2021

Il legame apostolico

Efesini 2,19-22 e Giovanni 20,24-29

Festa di San Tommaso Apostolo


La Costituzione Dogmatica Lumen Gentium  del Concilio Vaticano II cita:"Questa è l'unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica e che il Salvatore nostro, dopo la sua resurrezione, diede da pascere a Pietro (cfr. Gv 21,17), affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida (cfr. Mt 28,18ss), e costituì per sempre colonna e sostegno della verità (cfr. 1 Tm 3,15)".
Ma non si tratta solo di organizzazione o di istituzione formale, si tratta di relazione intima e di testimonianza di una esperienza vissuta realmente: l'amicizia con il Signore.
Ecco allora che  La Chiesa è apostolica, perché è fondata sugli Apostoli: essa è stata e rimane costruita sul “fondamento degli Apostoli quali testimoni scelti e mandati in missione da Cristo stesso - custodisce e trasmette, con l'aiuto dello Spirito che abita in essa, l'insegnamento, il buon deposito, le sane parole udite dagli Apostoli. 
Parole che corrispondono altre che all'insegna,entro di Gesù al particolare incontro che ciascuno di loro ha fatto con il maestro. Gli apostoli, in questo senso sono veri testimoni, a partire dalla loro particolare relazione con Gesù.

venerdì 2 luglio 2021

Una storia d'amore poco conosciuta

Genesi 23,1-4.19;24.1-8.62-67 e Matteo 9,9-13


Eliezer, maggiordomo di Abramo, è incaricato di una delicata missione: condurre le trattative matrimoniali per ottenere una consorte al figlio Isacco. Secondo le norme giuridiche antiche, la moglie deve appartenere al reticolo delle parentele tribali. Per questo Eliezer cerca la donna per Isacco nell’ area di origine di Abramo, nel «Paese dei due fiumi», l’alta Mesopotamia. Là il maggiordomo incontra una pronipote di Abramo, Rebecca, figlia di suo nipote Betuel. Nella trattativa ha una funzione di rilievo Labano, fratello della donna, secondo gli usi “maschilisti” dell’ Antico Oriente. Ma anche Rebecca è coinvolta: «Vuoi partire con Eliezer?», le chiedono il padre Betuel e il fratello Labano ed ella risponde: «Andrò!».
Siamo quasi al tramonto e, nelle steppe del deserto di Giuda, Isacco è in giro con il cuore ancora gonfio di tristezza per la morte di sua madre, Sara. Quand’ ecco all’ orizzonte profilarsi una carovana di cammelli. Egli intuisce che forse è il corteo della sua futura sposa. Il narratore evoca il giuoco degli occhi: Isacco «alza gli occhi» e vede la carovana, Rebecca «alza gli occhi» e vide Isacco e subito si copre con il velo che nascondeva il volto alle donne. Isacco prende per mano la sua sposa e la introduce nella tenda femminile della tribù, la solitudine dell’uomo Isacco, la sua tristezza e le sue amarezze sono cancellate dalla presenza della sua donna, l'amore tutto trasfigura, e allora tutto si ama, e tutto si vede con occhi diversi.

giovedì 1 luglio 2021

La paternità

Genesi 22,1-19 e Matteo 9,1-8


Abramo racconta in tutto il capitolo 22 la drammaticità della sua paternità verso il figlio Isacco, ripercorre il dramma di una promessa che se al principio sembrava impossibile, poi si è dimostrata vera in una fede che cresceva insieme al divenire della promessa stessa; ora quella promessa è straziante e lacerante nelle viscere: quel figlio donato ora è un figlio strappato. Come vedere in tutto ciò l'espressione bella e di pienezza di essere padre?
Ma pure Dio, abita i sentimenti, i pensieri e la carne di Abramo; lo stesso Signore sperimenta il dramma di Abramo e prende parte a tutto il travaglio per quel figlio.
Abramo rimane senza parole, in silenzio, non sa proprio cosa rispondere, se non: "Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!"
Siamo di fronte a non risposta, quelle per quando non si può e non si vuole rispondere ... e tutto viene fatto ricadere in Dio.
Oso fare una lettura, forse non correttissima, ma possiamo dire che Il racconto di Genesi 22 rappresenta l'espressione della paternità di Dio, per il suo figlio unigenito e quindi per ogni suo figlio di uomo. Il sacrificio è un unire, elevare, fino al cielo l'espressione più preziosa della nostra vita. Il sacrificio non è per questo solo il momento cruento e doloroso. Ed è in questo sacrificio che Abramo riconosce che il suo essere padre riesce a giungere a compimento in quell'offrire il figlio, egli non provvede pienamente al sacrificio, non può e anche se vuole resta incapace. Solo Dio, dolo Yhwh, che vede, può provvedere pienamente a rendere quel sacrificio una offerta che esprime in cielo, ciò che la paternità rappresenta e ciò che l'essere figlio, rappresenta.
L’amore tra Abramo e Isacco può evocare, lo stesso amore causa del sacrificio consumato sul monte Golgota, un Figlio unico e amato, di cui il padre non vuole la morte, anzi proprio l'obbedienza al padre da pienezza alla paternità. L'amore fino all’estremo sfocia in una esperienza folle e inesauribile: Dio richiama Gesù dai morti, lo fa risorgere.