giovedì 31 ottobre 2019

Romani 8,31-39 e Luca 13,31-35
Amare Dio è possibile solo in Gesù!

È una relazione personale che ci permette di fare l'esperienza dell'amore. Non si ama con il cuore o con la testa. Con il cuore si è mossi nell'amore attraverso i sentimenti e l'impulso della natura; con la testa si percorre la via dell'amore mediante la ragionevolezza e l'intelletto; ma tutto questo non è sufficiente per fare esperienza di amore. Si ama realmente con tutta la persona attraverso una relazione che è vita; è questo coinvolgimento totale che permette una autentica e riconosciuta esperienza di amore. È la nostra natura, la nostra identità, la nostra persona che esprime nella sua totalità l'esperienza dell'amare, e si riconosce nell'amore come realtà pienamente rivelativa. L'amore a Dio non può essere un atto di fede, un impulso sentimentale, una scelta ragionata, ma come dice San Paolo: "Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore"; l'amore a Dio è umanamente possibile, perché nulla lo può impedire, se è espressione della relazione personale con Gesù, cioè con il verbo incarnato, Dio stesso che come figlio rende la persona divina capace della nostra umanità. È necessario che i nostri sentimenti, la nostra ragione, la nostra stessa natura e fede siano tutte coinvolte nella relazione personale con il Signore. Questo è illusorio ma è possibile pregando con Gesù ; questo è possibile sostando (adorazione/contemplazione) con Gesù; questo è possibile vivendo i segni reali - sacramentali - della presenza (parola; eucaristia; misericordia e perdono); questo è possibile nell'esercizio di carità, accoglienza e amicizia fraterna. Gesù va conosciuto e amato a partire da Gesù!

mercoledì 30 ottobre 2019


Romani 8,26-30 e Luca 13,22-30
Il nostro vero bene!

"Voi, non so di dove siete", non conosco la vostra origine, la vostra casa, la vostra famiglia, il vostro padre ... Mai parole del Signore furono più esplicite e dure. Un concetto che si accosta al "chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anche io lo riconoscerò davanti al padre mio, ma chi mi rinnegherà ..."; ma perché una espressione così dura, così forte?
Forse perché c'era già chi viveva come discepolo in modo non "vero", c'era chi seguiva il Signore nella speranza di una qualche opportunità, per riuscita, oppure per conseguire un qualche successo ...
Discepoli che hanno mangiato nella intimità della casa con il Signore e che sulle piazze hanno ascoltato le sue parole, senza però convertire il cuore e la vita. Una esperienza drammatica anche oggi è lo stare (o sostare) nella Chiesa senza fare frutti di conversione! E' questa l'incredibile miopia del discepolo! Ogni tralcio viene portato perché porti più frutto ... di conversione, e se non porta frutto viene tagliato e gettato. Questa immagine appartiene al genere del "giudizio finale" ma anche alla concreta attualità della vita del discepolo. La salvezza si deve attendere come condizione di vita eterna, ma la si vive nel tempo presente come conversione  permanente. La conversione allora non è presenzialità nelle piazze (in comunità, negli spazi sociali e di vita, ecc ...), fin nella mensa del Signore (eucaristia), ma rappresenta in concreto il modo in cui la salvezza è esperienza della vita. Fintanto che pensiamo la salvezza come un decreto o un giudizio legale mai entreremo per la porta stretta che è la conversione del cuore: cioè il cambiamento!

martedì 29 ottobre 2019

Romani 8,18-25 e Luca 13,18-21
Perseverare per il regno

La prima immagine del Vangelo racconta il desiderio del regno dei cieli; desiderarlo fino al punto di porvi la dimora, come un uccello del cielo che fa il suo nido, costruisce la sua casa, colloca la sua vita e la sua stabilità sui rami di quella pianta di senape ...
La seconda immagine invece, ci dice come il desiderio del regno, perseverando, è fermento di cambiamento. Non è semplicemente un "crescere", ma è un trasformare e convertire la farina in un impasto che diviene pane, cioè una novità che dopo la cottura, diventa molto più buona. Queste immagini forniscono due provocazioni per il nostro discepolato. Seguire Gesù oggi, ancora più di secoli fa, regge nella misura del desiderio. Non si segue più un maestro per convenzione sociale: "sono nato cristiano per cui ..."
Ma lo si segue se il mio desiderio di verità, di giustizia e di pienezza corrisponde alla sua persona, al suo agire alle sue parole. È la comprensione del desiderio che mi apre alla disponibilità della sequela. Ma se il mio desiderio viene meno o si orienta a tutt'altro?
Il regno di cieli fermenta e cresce ... Ma se viene a mancare la farina della mia umanità quel fermento (lievito) rimane potenzialmente capace di una trasformazione, di conversione, però non troverà più alcuna possibilità. Quando sottraiamo a Dio, il mistero dell'umano è come nascondere la farina per l'impasto del regno dei cieli.

lunedì 28 ottobre 2019

Efesini 2,19-22 e Luca 6,12-19
Da lui usciva una forza che guariva tutti ...

Lo sguardo di Gesù si rivolge tutto intorno; salire sul monte permette al Signore di vedere tutto e soprattutto "tutti"; nessuno è escluso, tutti sono invitati a salire sul monte per divenire suoi discepoli. Il gruppo dei dodici acquista - se vogliamo - una immagine ecclesiale, non selettiva ed esclusiva, ma diviene simbolo del nuovo Israele, della universalità delle genti che il Signore vuole incontrare/convocare. Questo incontro si realizza attraverso il contatto mediante i discepoli. Dopo essere saliti con Gesù sul monte, tutto e tutti, veniamo ricondotti nell'incontro con le genti: "C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne." Non è una chiamata esclusiva e settaria, ma una chiamata universale che coinvolga il tutto in una azione che è missione: "essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri venivano guariti".
È una chiamata per essere dono di guarigione per le nostre malattie e per vincere il satana-divisore che ci rende schiavi della "disumanità". La malattia incurabile da cui non riusciremo mai a liberarci è la nostra propensione ad essere dio a noi stessi. L'esperienza di essere con Gesù, dono di guarigione, ci permette di rigenerare quella apertura all'umano che si esprime attraverso l'amore di Dio e dei fratelli, è questa l'unica medicina, l'unica esperienza capace di guarire la nostra ferita mortale.

domenica 27 ottobre 2019

Sir 35,15-17.20-22; Sal 33; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14
In missione si impara a superare il pre-giudizio


Chi ha l'intima presunzione di essere giusto disprezza l'altro!
Non è forse vero che la fatica più grande di una comunità si sperimenta nel modo di stare assieme? Quanti attriti, quante incomprensioni segnano anche la nostra esperienza.
Parole come "comunità chiusa"; impossibile entrare; club esclusivo ...
Raccontano uno sguardo esterno ma anche interno alla comunità, rispetto al quale occorre operare una vera conversione, se vogliamo essere veramente cristiani.
Ecco allora che il Vangelo illumina anche l'esperienza comunitaria, mette in guardia da certuni stili parrocchiali:
La preghiera del fariseo, forse anche di qualche "buon cristiano" è sintomatica: "... ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo".
Ma detto tutto questo, il fariseo resta solo, e resterà sempre da solo, egli si erge a essere "un io autoreferenziale ..." Anche se vado a pregare davanti al tabernacolo, in realtà non mi accorgo neppure della presenza di Dio, così come sono preso da tutta la mia presunta giustizia.
La preghiera del pubblicano invece ci permette di riconoscere e tradurre la nostra più umiliante sconfitta: ciascuno di noi non basta mai a sé stesso: "... Stando a distanza si batteva il petto dicendo: " O Dio (tu), abbi pietà di me peccatore".
Il "tu" del peccatore, quel "tu" rivolto a Dio, rivela tutto il suo affidarsi all'amorevole attenzione dell'altro, di Dio, manifesta tutta la sua inadeguatezza, ed invoca la compassione di una comunità di fratelli. Quel tu invocato con desiderio e con il cuore è la vera apertura alla conversione, non è semplicemente uno sforzo comportamentale.
Quel TU È una piccola parola che cambia tutto: significa cambiare l'io del fariseo con il tu del pubblicano, ovvero conversione.
Le regole del Tu, sono semplici e valgono per tutti e per tutto. Sono le regole della vita:
se metti al centro l'io, nessuna relazione funziona. Non nella coppia, non con i figli o con gli amici, tantomeno con Dio.
Il nostro vivere e il nostro pregare progrediscono, sono in stato di conversione quando il desiderio di amare, quando i sogni che abitano la nostra mente, quando Dio stesso divengono lo spazio in cui il TU precede l'IO, al punto che la preghiera non è più la mia parola di richiesta ma il mio spazio di trasformazione.
Dice il Papa Francesco: “Un primo passo è liberare le nostre menti e i nostri cuori da pregiudizi e stereotipi” (…) “Quando pensiamo di sapere già chi è l’altro e che cosa vuole, allora facciamo davvero fatica ad ascoltarlo sul serio” (…).
Fintanto che non facciamo nostro l'amore verso il prossimo, come obiettivo e come modo per convertire e coltivare la nostra natura umana incline ad essere come il fariseo, con fatica riusciremo a comprenderci come quel pubblicano che nel vivere il dramma delle proprie fragilità sente la vicinanza di Dio, che lo conduce pian piano nella pienezza di chi è amato gratuitamente. Questa esperienza di amore gratuito diviene oggi il fondamento della nostra attenzione missionaria:
- è nell'esperienza dell'amore gratuito che impariamo a riconoscere la ricchezza del pubblicano, per cui la vita dell'altro mi diviene "cara";
- è nell'esperienza dell'amore gratuito che impariamo a passare dall'io al Tu che è il modo di esprimersi della Chiesa;
- è nell'esperienza dell'amore gratuito che impariamo a stare in mezzo alle persone, con la gente, consolando, alleviando, con il grembiule di servizio, per offrire misericordia e perdono, imparo a non voler stare in prima fila come un giudizio vivente per l'altro.

sabato 26 ottobre 2019

Romani 8,1-11 e Luca 13,1-9
Una pianta di fico 

Il padrone era venuto a cercare frutti, cercava i dolci frutti del fico. Grande aspettativa quanto grande è la delusione di non trovarne.
Di particolare nel fico è certamente la modalità attraverso la quale i "frutti" giungono a maturazione, e l'occasione stagionale non sempre così chiara e definita (da giugno a settembre). Anche Gesù uscendo da Gerusalemme maledisse un fico perché non aveva frutti, solo foglie, ma l'evangelista annota che non era la stagione dei fichi maturi. Il brano di Luca era partito da alcuni fatti accaduti a Gerusalemme, situazioni che avevano sconvolto la vita degli abitanti della città. È in quel contesto Gesù interroga la coscienza dei credenti sulla necessità di convertirsi. Ogni giorno la vita e le situazioni che accadono chiedono una risposta che per chi crede, cioè una occasione di conversione, una occasione per invocare la presenza di Dio, e la luce di un discernimento che non sia solo ragionevole, ma frutto di grazia, e dello Spirito. Di fronte alla durezza e crudeltà della vita, Gesù suggerisce di non adagiarsi in una triste rassegnazione ma di stare nelle cose con prudenza, fortezza e temperanza. Sono queste le virtù che generano il frutto del discernimento della vita. È questo il frutto che il padrone cerca nella pianta di fico. Ciascuno di noi è così invitato a prendersi cura del proprio discernimento affinché con prudenza ci si muova nelle situazioni, si smuova il terreno; con fortezza si tagli ciò che è infruttifero, e con temperanza si concimi con la grazia e la vita spirituale.

venerdì 25 ottobre 2019

Romani 7,18-25 e Luca 12,54-59
Dall'inconsistenza alla grazia!

Non è la prima volta che nel Vangelo, nelle parabole troviamo questa espressione o formulazioni simili a questa: "... lungo la strada cerca di trovare un accordo con lui, per evitare che ti trascini davanti al giudice e il giudice ti consegni all’esattore dei debiti e costui ti getti in prigione. Io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo"; incombe infatti, nella nostra vita, quel senso di giustizia umana, che alla fine risulterà sempre una disumana ingiustizia. Siamo di fronte a una esperienza, forse sperimentata anche da Paolo, che mette in evidenza la palese inconsistenza tra la nostra condizione reale e la visione ideale che lo Spirito di Dio suscita in noi. Questa "distanza" è lo spazio in cui agisce la grazia ed è lo spazio umano-divino in cui ciascuno di noi incontra quotidianamente Gesù. Paolo nella lettera ai romani esulta esclamando: "Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!" Infatti chi riempie questo spazio nel quale sperimentiamo un ingiusto giudizio, chi ci svela il senso di quel discernimento che permette al mio vivere quotidiano di essere in cammino in quello stimolo di grazia che vince e redime la nostra inconsistenza!
Vivere l'inconsistenza come occasione di grazia - assurdo per molti cristiani - permette invece, di vincere la condizione disumana in cui il giudizio è solo moralismo e mai esperienza di misericordia. Ciò che ridona la felicità perduta è solo il quotidiano incontro con Gesù, non in un giudizio, ma come compagno di cammino e di vita.

giovedì 24 ottobre 2019

Romani 6,19-23 e Luca 12,49-53
Fatti servi di Dio ...

Sono venuto a gettare fuoco ...
Quanta forza, e quanta passione nelle parole di Gesù! Non certo parole di timidezza ma parole che fanno la misura della sua venuta ... Tutto per ... "per fare di noi dei servi di Dio!"
Che assurdo ... A pensarci, tutto l'essere, tutto l'amare, e l'agire di Cristo è per "liberarci dal peccato e fatti servi di Dio, raccogliamo il frutto della santificazione in vista della vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore!"
Ecco allora che tanto fuoco non è un evento distruttivo ma è la grazia stessa che si diffonde per amore di Gesù in noi, con forte passione, con la fede del battesimo e col desiderio di piena felicità. Una grazia e un amore che si rivestono di divina umiltà, cioè della pretesa di un dono che non può essere sprecato o disatteso, non può essere sorpassato in nulla e da nessuno nella possibilità di essere corrisposto.
La forza delle parole di Gesù contengono il dono stesso del nostro vivere e del nostro vivere attraverso lui stesso, nella continua vittoria di quelle divisioni che caratterizzano la nostra vita senza il suo amore.

mercoledì 23 ottobre 2019

Romani 6,12-18 e Luca 12,39-48
Ricevere gratuitamente per restituire moltiplicato

“A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più.”
Non ho dubbi, il vangelo si riferisce proprio a noi! Siamo noi i discepoli di oggi a cui Gesù ha affidato molto: a noi affida la sua Chiesa, la sua sposa, affida la cura e la custodia integrata del mondo intero, come anche il farci prossimo gli uni agli altri; a noi poi chiede di mangiare alla sua tavola e lui si cinge le vesti per farsi nostro servo a noi offre la sua compassione e tenerezza, la sua misericordia.
Ed è proprio a noi che il Signore chiede: “cosa te ne fai di quanto ti ho dato?
Non sono parole nell’ordine della recriminazione, ma nell’ordine della gratuità. La gratuità presuppone un senso profondo di responsabilità sul dono ricevuto e altrettanta disponibilità a superare ogni possessività e avarizia. È questo stile di gratuità che manifesta e amplifica il dono ricevuto. Certamente un principio di questa portata sbaraglia ogni logica economica, e di scambio gratuito, … ma è ovvio, questa non è la logica del mondo, ma dell’altro mondo!

martedì 22 ottobre 2019

Romani 5,13-21 e Luca 12,35-38
Siate simili a uomini aspettanti ...

Quali sentimenti abbiamo e riconosciamo nei confronti di Gesù, del Signore? Questi due versetti di Luca sono una "miniera di stile" per decifrare come è un discepolo.
È diverso dire "aspettante" piuttosto che dire uno che aspetta; forse è solo impressione, ma uno che aspetta mi sembra proprio fermo sulla piazzola dell'autobus in attesa dell'orario fissato per la fermata. Un aspettante mi suggerisce un dinamismo, un movimento, una tensione viva nell'attesa stessa. Ecco che il servo aspettante sperimenta l'ansia per l'attesa del suo "padrone". Forse non ha mai atteso il suo ritorno da un viaggio o dopo una prolungata assenza? Forse ciò è già accaduto, ma non era mai accaduto il suo rientrare nella notte delle nozze! Ecco il padrone torna dalle nozze, torna egli stesso con la gioia di chi conduce la spesa nella casa. Non sono ammesse figuracce ... Tutto deve essere bello, preparato con cura, per accogliere la Sposa del padrone. I servi sono allertati, l'aspettativa/ansia del padrone è aspettativa e ansia dei servi. Non una aspettativa fine a sé stessa, non un'ansia psico-somatica, ma un vero desiderio di incontro e di accoglienza del padrone e della grande gioia che porta con sé. Ecco che quando arriva il padrone, questa attesa "aspettante" si trasforma nel prolungamento della festa di nozze: "Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli". Oggi preghiamo (ci rendiamo sensibili e disponibili) affinché il nostro vegliare in attesa di Gesù, il nostro desiderio di incontrarlo, sia da "aspettanti", per vivere in pienezza la nostra vocazione è il nostro servizio.

lunedì 21 ottobre 2019

Romani 4,20-25 e Luca 12,13-21
Da dove nasce la fede 

Da dove nasce la fede? La frase la pongo come domanda, perché è molto provocante, ma se fosse una affermazione non lo sarebbe di meno.
Come domanda, la lettera ai Romani fornisce una risposta chiara: la fede nasce nell'inquietudine di un cuore che non basta a se stesso. Abramo, nel suo migrare itinerante per le steppe che costeggiano l'Eufrate e le montagne del deserto siriano, quante volte guardando nella notte il cielo stellato si è interrogato sul senso della sua vita, sul senso dell'immensità dell'universo e dell'infinito numero di stelle che riempivano lo spazio tra la sua piccolezza e la percezione/presenza del creatore. Forse Abramo non ha neppure capito fino in fondo chi fosse Dio, ma come dice la lettera ai Romani: "... non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento". La fede corrisponde a ciò che porta a pienezza la nostra inquietudine esistenziale. Ma attenzione non è una fragilità, una favoletta da "oppio dei popoli", e tantomeno da irrazionali o incapaci di intelletto. La fede dall'inquietudine diviene spazio del mistero stesso di Dio; per Abramo, come anche per noi vale quanto dice sempre Romani: "noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, il quale è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione".
Se invece è una affermazione, significa che la fede la percepisco a partire da ciò che è tangibile e concreto. In effetti si ha fede nel tesoro "più grande" che nella vita sono capace di accumulare ... anche se tutto questo può essere un dramma! La fede è ciò che rende l'uomo ricco, cioè la sua vera ricchezza ... La fede nasce come accoglienza nella vita della vera ricchezza! 

domenica 20 ottobre 2019

Es 17,8-13; Sal 120; 2 Tm 3,14-4,2; Lc 18,1-8
Benedetta preghiera ...

Per che cosa preghiamo Dio?  Quali sono i motivi che sprigionano la nostra "rara" preghiera? Spesso sono dei bisogni improvvisi; a volte difficoltà e sofferenze; molto spesso problemi affettivi.
Certo che: "chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto ..." Mette Dio di fronte a una situazione che pregiudica la sua buona fama.
Dio esaudisce o non esaudisce le nostre preghiere?
Ecco appunto ... Le nostre preghiere, e se vogliamo essere precisi e giusti, noi generalmente ci limitiamo a una serie di richieste supplichevoli.
Ma questa vedova sta pregando o si limita a una insistente richiesta?
Il racconto in realtà è ben costruito, a un primo ascolto sembra banale: "quella donna è veramente una "gnola" ... E il giudice sfinito da tanta pressa, vuole togliersela dai piedi.
Gesù dice che Dio esaudisce la preghiera, sempre!
Forse occorre fare chiarezza e distinguere tra la preghiera e le richieste; tra un Dio Padre misericordioso e  un Dio "dispencer" automatico.
La conclusione dell'esempio che Gesù propone, non è certo la conclusione redazionale di un discorso fuori posto. Gesù mette in relazione la preghiera alla fede e alla stabilità di fronte al compiersi della pienezza del tempo.
La preghiera è spazio di relazione, io non prego per chiedere, prego per stare alla presenza di Dio. Poi in quel dialogo può anche starci una richiesta - è normale - ma prima di tutto, la preghiera è il modo di stare in relazione.
La preghiera costruisce plasma la mia fragilità, le mie asperità, mi modella e mi trasfigura: né a immagine della vedova petulante, ma neppure a immagine del giudice iniquo. La preghiera mi modella a immagine della misericordia e della giustizia del Padre. Proviamo a raccontarci ora il nostro spazio di preghiera in cosa consiste, cosa significa stare alla presenza di Dio, in sua compagnia?
Per me, dopo anni di tentativi e di tentativi ripetuti, non vuol dire essre dei perfetti; ma stare alla presenza significa: non stancarsi di dedicargli un tempo congruo, al mattino, presto, prima di iniziare le occupazioni della giornata, perché in quei minuti, un po' rubati alla quotidianità si sperimenta la primizia del proprio tempo ... Con Dio voglio condividere lo spazio più bello del cuore.
Ed ecco allora che pregando si scopre qualcosa che prima ti sfugge: a partire da te stesso, a partire dalla Chiesa, a partire dalla mia comunità.
Oggi occorre pregare perche ciascuno di noi a partire dalla presa di coscienza del proprio Battesimo, riscopra la gioia di chi crede in Gesù vivo, risorto e ha il coraggio di annunciuarlo. E' questa la missione dei Battezzati; dice il papa: "Ecco testimonianza, visibile nel dialogo, nella carità scambievole, nella reciproca accoglienza e condivisione, dice la bellezza del Vangelo, attira alla gioia di credere in Gesù e ancorarsi a Lui"
Nella nostra preghiera insistente si colloca la cura dell adimensione missionaria "ho bisogno di rendermi conto che le "gentes lontane" ora sono venute ad abitare nei nostri paesi, sono gli sconosciuti della porta accanto. Anche gli italiani della porta accanto, i nostri concittadini. È necessario riscoprire l’affascinante avventura del farsi vicini, di diventare amici, di accoglierci e di aiutarsi".
Allora preghiamo perché questo atteggiamento riguarda tutti: sacerdoti, persone consacrate e fedeli laici. Il tema dell’ottobre missionario straordinario 2019 è “Battezzati e inviati”, scelto proprio per ricordare che la natura intrinseca della Chiesa è missionaria. 

sabato 19 ottobre 2019

Romani 4,13.16-18 e Luca 12,8-12
Custodi della promessa.

"Ti ho costituito padre di molti popoli". Questa attestazione della Scrittura si lega alla promessa della discendenza e della terra, e dilata il valore della Scrittura rispetto a tutti i popoli della terra. Ecco che sarebbe miope rileggere in una chiane nazionalista la promessa ad Abramo, sarebbe una interpretazione riduzionista ed esclusivista; come in opposto sarebbe svuotamento di senso rinunciare alla predilezione per Abramo e del popolo di Israele. Questi due poli vanno tenuti insieme per rileggere il senso della promessa in ordine alla fede personale in quanto conseguenza della fede di Abramo.
Noi siamo parte della fede di Abramo, per questo: "Eredi dunque si diventa in virtù della fede, perché sia secondo la grazia, e in tal modo la promessa sia sicura per tutta la discendenza: non soltanto per quella che deriva dalla Legge, ma anche per quella che deriva dalla fede di Abramo". La fede di Abramo è grazia, la fede del popolo di Israele è partecipazione alla medesima grazia; la nostra fede e ugualmente parte della stessa grazia! Custodire la grazia della fede di fronte alla degradazione che la fede subisce nel "tempo" non è semplice conservazione di una esperienza spirituale; custodire significa ricollocarsi nella dimensione di quel fatto per cui Abramo, nella sua vita riconobbe la presenza di Dio e manifestò apertamente il suo atto di fede. L'esperienza di Abramo , è l'esperienza degli eredi della sua promessa; essa è attualizzata nella fede che ciascun discepolo è chiamato a riconoscere rispetto a Gesù, in riferimento al Figlio dell'uomo: "... chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell’uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di Dio; ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio". L'atto di fede è una "cosa seria"; è una eredità che si accetta o si rifiuta all'alba di ogni giorno: oggi ti riconoscerò o ti rinnegherò davanti agli uomini?

venerdì 18 ottobre 2019

2 Timoteo 4,10-17 e Luca 10,1-9
Festa di San Luca evangelista
Identità del discepolo ... missionario

Leggendo il brano della lettera seconda di Timoteo, come pure il Vangelo di Luca - nel tentativo di decifrare un senso vivo e autentico della Parola - mi sento provocare rispetto alla identità di chi segue Gesù, perché chiamato alla sequela. Nelle parole di Paolo, una grande desolazione per la sua solitudine: i suoi compagni non ci sono più, il suo ministero è in crisi, e ormai sembra un uomo rassegnato, se non fosse per la completa e piena fiducia in Gesù, nel maestro, che anche in quel momento si dimostra fedele: "Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero". Tutti i battezzati sono dei chiamati per annunciare con la vita il Vangelo di Cristo. È da questa mossio-vincolo che deve emergere la consolazione del Signore vicino! La sua vicinanza come esperienza tangibile nell'annuncio. Forse occorre fare allora una riflessione circa la nostra modalità, il nostro modo di annunciare il Vangelo! L'annuncio non può essere conservazione dell'odinario; non può essere omiletica domenicale e neppure amministrazione dei sacramenti, pur anche dopo un bel corso di preparazione. Forse occorre proprio discernere la pastorale di conservazione che abbiamo elaborato in questi ultimi secoli rispetto al vivere il Vangelo come esperienza di comunicazione e condivisione. Quando Gesù invia i settantadue, li manda prima di tutto a incontrare la vita della gente, ad entrare ed essere accolti nelle loro case, a essere sostenuti dalla loro carità è gratuità. Lo stile dell'annuncio originario, apostolico è essenzialmente appoggiato sulla Parola del Signore e sulle conseguenze della sua accoglienza. Esiste uno stile di vita cristiana meno affardellata dalle sicurezze e dagli schemi pastorali; un "programma" che è lo stile del Vangelo:
- la quotidianità come spazio di accoglienza bidirezionale (senza distinzione e senza incentivi economici e sussidi);
- la vita come opportunità della carità e della misericordia (il recupero dell'umano prima del giudizio per l'umano; ... i lupi sono e restano capaci di divorarti);
- la sobrietà nelle scelte e nello stile di vita (non occorre avere tutto sotto controllo, essere tutelati in tutto ... Occorre anche affidarsi alla provvidenza, che è un atto di fede esplicito).

giovedì 17 ottobre 2019

Romani 3,21-30 e Luca 11,47-54
Cosa state facendo!

Quello che dici, quello che fai, non ci va più bene! Tu sei "diverso" da noi, non ti adegui alla convenzione socio-religiosa che è ormai condizione diffusa della vita del popolo. Tu ti ergi come cardine di una realtà nuova, di una giustizia che si fonda sulla misericordia, "perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù". 
Le parole della lettera ai romani traducono pienamente la centralità dell'annuncio che Gesù fa di fronte a tutti, scribi, farisei, sacerdoti, popolo ... L'evangelista Luca in modo esplicito e senza mezzi termini ci da' i connotati del clima che Scribi, Farisei e dottori della legge stanno suscitando intorno a Gesù: "ed essendo uscito ... cominciarono violentemente a provare rancore e a provocare lui nel parlare su molte cose, stando in agguato di lui per catturare qualcosa da la bocca di lui". Siamo di fronte non a una semplice ostilità o contrapposizione, ma all'inevitabile crescendo del disumano che trasforma gli uomini in cacciatori e Gesù è la preda da cacciare e uccidere per essere ostentata come trofeo. 
I vari "guai a voi" beghe Gesù esibisce, sono ben più di una minaccia, se fossero minacce tutto si giocherebbe sul piano della contrapposizione, ma in essi è contenuta la lettura di commiserazione: "poveri voi, che cosa state facendo" ... La misura della iniquità è costantemente portata a pienezza! (...) Uccisori di profeti; (...) occultatori della verità. È l'impero delle tenebre, è la ora della iniquità. In tutto questo l'unica risposta di cui Dio è capace, è il suo figlio: "la giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono"; e il suo grido, sconcertato che solo può destare la coscienza: Guai a voi!... Sarebbe terribile!" Cosa state facendo!

mercoledì 16 ottobre 2019

Romani 2,1-11 e Luca 11,42-46
Infuria la polemica ...

All'immagine di Gesù mite, buono è sempre accogliente che in un certo modo si è determinata, il Vangelo ci riporta a una immagine combattiva e forte di un Gesù che non si lascia dominare da convenzioni, ipocrisie e interessi di parte.
Gesù assume in pieno e vive la proposta del Vangelo; egli non ha remore nel mettere in evidenza la fragilità e doppiezza che può abitare nel cuore dell'uomo.
Gesù non rimprovera dei discepoli, in questo passo di Luca la "contrapposizione" o meglio la rivelazione dell'ipocrisia è rivolta ai farisei e dottori della legge. È un dato acquisito infatti che all'osservanza scrupolosa della legge, corrispondesse solo un atteggiamento esteriore di formalità, ma per molti di loro la vita reale era altra: il lusso e la ricercatezza delle case, del vestire, del mangiare, al modo della cultura romana e greca, era entrato nello stile quotidiano della loro vita. Questa doppiezza urtava il popolo, che da una parte doveva subire una pesante occupazione e dall'altra vedeva i propri capi vendersi compiaciuti alla potenza occupante. Gesù non si limita a smascherare l'ipocrisia, ma a rilanciare lo stile nuovo del "regno dei cieli". Ecco che nei vari "guai a voi", si supera il livello della rivendicazione per esaltare e recuperare quello della proposta di un nuovo progetto di vita:
- cercare e confrontarsi con ciò che è la giustizia;
- sforzarsi nell’amore di Dio (e del prossimo), forzare la misericordia;
- mettersi all'ultimo posto per vivere la "periferia" dell'umano;
- contagiare con il meglio di noi;
- condivisione della realtà e le sue fatiche, non generare le fatiche al prossimo.

martedì 15 ottobre 2019

Romani 1,16-25 e Luca 11,37-41
Attenzione a chi inviti ...

Imprigionato negli obblighi della purità legale, la vita del fariseo osservante è tutta una preoccupazione circa la sua purità e impurità ... Tutta la sua vita è un continuo rincorrere una purità che può venire meno con un semplice contatto, una semplice distrazione. Ma l'evangelista Luca ci ha già dato elementi sufficienti per osservar, per guardare non se Gesù si lava le mani, oppure no - infrangendo le leggi di purità - ma come Gesù sia [il di] più della sapienza degli uomini (di più di Salomone); sia [il di] più del segno di Yhwh (il di più di Giona). Accogliere il maestro nella propria casa significa disporsi a vivere il Vangelo, non ad accostarlo semplicemente alla propria sapienza o alle memorie di una religiosità passata. Vivere il Vangelo libera dall'ipocrisia della religiosità bigotta e legalista.
Non posso invitare Gesù per perdermi nell'osservare ciò che fa e per ciò che propone! Avvicinarmi a Gesù significa lasciarlo entrare dentro la vita, non trattenerlo all'esterno per una "pulitura di piatti", accontentandomi di una vita nella superficialità. Gesù smaschera la mia vita superficiale, chiedendomi di andare oltre l'ipocrisia apparente. Egli mi invita a prendermi cura del cuore, dell'interno, dove scoprirò che esiste Dio; dove la "lampada" è luce di giustizia e di amore. In ciascuno di noi c'è un piccolo fariseo che è lentissimo a morire; c'è il nostro fratello maggiore, e il giusto che non ha bisogno di conversione; il Vangelo di Luca sembra proprio scritto per convertire il piccolo fariseo, il fratello maggiore, il giusto per definizione. Ma Gesù ama proprio il fariseo, il fratello maggiore è il presunto giusto; con il suo stile di vita mi chiede di fare altrettanto. Questo stile nuovo è il passaggio dalla legge al Vangelo, dalle lavature di mani, piedi e stoviglie, all'amare prima di tutto! Ho invitato Gesù a casa mia, attenzione perché non posso più essere un normale fariseo!

lunedì 14 ottobre 2019

Romani 1,1-7 e Luca 11,29-32
Il giudizio nel presente

Una provocazione durissima Quella di Gesù: "questa generazione è una generazione malvagia ..."
Durissima ma appropriata: la malvagità si spiega come giudizio per l'indifferenza rispetto alla venuta del regno di Dio, dell'accostarsi al presente dell'"Ecco ben più di (...) c'è qui!"
È indifferenza rispetto al mistero, è chiusura rispetto a un Figlio dell'uomo che è segno e mistero, che è sempre alla porta del momento presente, che bussa ... ma che ogni generazione ostinatamente lascia fuori ... scartandolo ed escludendolo. La durezza del giudizio pronunciato dal Signore non è in sè stesso, ma è conseguenza di una durezza proprio di quella generazione contemporanea di Gesù, immagine di ogni generazione, che presume di bastare a sé stessa. Il rischio di una comunità credente è proprio quello di bastare a sé stessa, e di fare del mistero sperimentato nel passato, un puro ricordo e lettera morta. Una comunità autoreferenziale dimentica che il tempo presente è abitato da Dio. Dio visita il suo popolo, i suoi amici nella realtà presente. Tale vicinanza e giudizio cioè memoria e tenerezza del suo costante prendersene cura.

domenica 13 ottobre 2019

2Re 5,14-17; Sal 97; 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19
Una fede grata ...

Naaman il siro, il lebbroso samaritano, sono immagini di un cammino umano che entra nel dinamismo della fede.
A volte noi confondiamo la nostra fede con la professione di fede. Ma la fede non si risolve in una affermazione teologica, e neppure in una asserzione convinta della propria coscienza. Forse occorre che impariamo che la fede è come la "corrente" della vita e dell'esistenza. La fede è desiderio di Dio, bisogno di essere amati da un amore che non si consuma e si estingue. La fede è appartenenza a un mistero che ti sostiene pur nella personale fragilità e debolezza.
Il lebbroso del Vangelo che torna da Gesù dopo essere guarito, racconta la sua fede, attraverso l'esperienza della dura malattia. Quella lebbra più lo ha escluso dalla società, più lo ha ferito e umiliato, ancora di più lo ha avvicinato a Dio. E le parole di Gesù, quasi insignificanti agli orecchi dei molti, per lui hanno rappresentato la risposta attesa, di un Dio che si prende cura della vita dei suoi figli. Che strano, anche lui era straniero, era un "cane samaritano" ... eppure a Dio non è dispiaciuto rivelarsi e amarlo fino a rinnovargli la vita.
Noi che fede abbiamo? Come potremo raccontare la nostra fede?
Naaman, i dieci lebbrosi ... anche altri, hanno potuto raccontare il "cammino" della propria esperienza di fede, nelle durezze, nella fatica, nella fragilità; nella fede che nasce dalla  sofferenza; fino a giungere alla speranza, al desiderio, alla certezza, all'affidamento. La vita si è rivelata il contenitore ideale di una esperienza:
- del camminare nella ricerca del mistero;
- dell'ascoltare una parola di salvezza;
- del riconoscere con gratitudine una grazia inattesa è necessaria.
La fede è appartenenza, è testimonianza, è stupore, è fiducia ... ma soprattutto è mistero di Dio, che ci incontra nella nostra fragilità umana, e ci incontra attraverso la Chiesa e gli uomini di Chiesa, anche se fragili e inadeguati, ma è il mistero di Dio che sceglie quegli uomini, e quella realtà per suscitare la Fede nei suoi figli.
La fede è una necessità dell'amore ... ecco perché è così importante. L'amore umano, l'amore di Dio Padre, l'amore di Cristo, l'amore che è lo Spirito ... L'amore trova nella fede il modo esplicito di essere decifrato, capito, comunicato e condiviso.
Ecco allora che la testimonianza della fede è testimonianza di amore ... Ma amare nella vita si traduce nella esperienza della gratitudine.
Sia Naaman che il lebbroso samaritano, esprimono la loro fede nella gratitudine.
Chi non dice mai grazie a Dio per i doni ricevuti, per la vita che ci sostiene, per le persone che ci ha posto accanto, per l'amore che illumina i nostri giorni ... Che fede ha?
La fede ha un vocabolario semplice, del cuore, immediato ... Essa è apertura al mistero e gratitudine. Facciamo realmente esperienza della fede quando siamo capaci di gratitudine, quando il grazie che diciamo a Dio e ai fratelli è talmente normale e semplice che rispecchia il nostro cuore che in quel gesto tutto si abbandona, tutto si affida.
Quale grande sofferenza è allora il tradimento della gratitudine, il tradimento dell'amore che oggi ti manifesta in molti uomini, anche di chiesa, in molti ministri e vescovi e laici.
La fede, garantita nella comunione ecclesiale, è certezza di essere nell'amore di Cristo, quell'amore che cammina accanto a noi nel tempo, ci rinnova e ci rende idonei a vivere e annunciare il Vangelo.

sabato 12 ottobre 2019

Gioele 4,12-21 e Luca 11,27-28
Tu sei nostra felicità ...

Proseguendo nella lettura di Gioele, ascoltiamo come il giorno del Signore evolve nella Valle della decisione, la Valle di Giosafat. La vicinanza di Dio si compie pienamente - sembrerebbe - nel giorno della decisione, nel giudizio che coinvolgerà tutte le nazioni; il Profeta suggerire che tutto sarà passato/vagliato nella prossimità di Yhwh. Il riferimento di Gioele apre alla visione mistica di Gerusalemme come città eterna, come città del cielo, e la valle di Giosafat - topograficamente l'avvallamento tra i pedi della spianata del Tempio e la valle del Cedron - diviene il segno escatologico della venuta di Yhwh: "poiché lì sederò per giudicare tutte le nazioni dei dintorni". La visione che noi stessi generalmente comprendiamo è quella del processo e del giudizio conseguente; ma il sedere di Yhwh rappresenta l'atto del re che si siede alle porte della città per essere vicino a chi entra e a chi esce, a chi vive nelle sue mura, a chi gli appartiene e a tutti quelli di cui lui ha cura. È forse da comprendersi in una visione pastorale del pascere il popolo. Ecco che il giudizio è ben diverso da una condanna o una assoluzione, ma è un condurre nella giustizia, nella vita, alla beatitudine e alla pienezza.
Anche la vita di Gesù è di per sé vicinanza di Dio, vicinanza fino alla prossimità di esistere nella nostra stessa esistenza. È questo il mistero dell'incarnazione che si evidenzia nella beatitudine che dal del grembo e al seno si genera nell'accoglienza della Parola, cioè il Vangelo nella vita: "nostra felicità/giudizio/beatitudine è il Vangelo".

venerdì 11 ottobre 2019

Gioele 1,13-5;2,1-2 e Luca 11,15-26
Anche oggi viene il giorno del Signore ...

Più che una profezia, questa venuta del giorno del Signore, è in Gioele una constatazione e un desiderio permanente. Dopo aver chiesto la conversione del popolo tornato dal l'esilio, in un momento di prova - invasione delle cavallette/carestia - il Profeta, ottenuto il ravvedimento invoca la benedizione di Yhwh. L'intervento divino non tarderà a rivelarsi con tutta la sua forza: "È infatti vicino il giorno del Signore e viene come una devastazione dall’Onnipotente. (...) viene il giorno del Signore, perché è vicino, giorno di tenebra e di oscurità, giorno di nube e di caligine".Possiamo interpretare questa venuta di Yhwh sia per il tempo prossimo, nell'attualità della conversione, sia nel desiderio profetico del giudizio finale di Dio. Ma in entrambi gli sviluppi non cambia la convinzione circa la vicinanza del giudizio di Yhwh come sua partecipazione agli avvenimenti della vita dell'uomo in cammino per il compimento della storia. Può essere questa la chiave di lettura anche del Vangelo di oggi. Il regno di Dio, rappresenta e rende concreto il venire di Dio. Gesù stesso non solo lo annuncia, lui stesso lo vive nella sua persona nel suo agire per la verità, per il bene, per la salvezza dell'uomo e dell'universo intero. Quel dito di Dio, non è un dito puntato, per un giudizio di condanna, ma è un dito insieme deciso e discreto, che è capace di sfiorare le cose, per nulla alterare della libertà di cui l'uomo e la creazione sono dotate; ma ugualmente quel dito rappresenta la vicinanza del Padre nella novità di vita che è il suo regno. Quando anche noi siamo sfiorati dal dito di Dio, liberi dalle insidie del male e dall'orgoglio: la partecipazione al mistero di Cristo, è la nostra vita nuova (il regno dei cieli) che esprime, che il nostro giorno, è giorno del Signore!

Gioele 4,12-21 e Luca 11,27-28
Tu sei nostra felicità ...

Proseguendo nella lettura di Gioele, ascoltiamo come il giorno del Signore evolve nella Valle della decisione, la Valle di Giosafat. La vicinanza di Dio si compie pienamente - sembrerebbe - nel giorno della decisione, nel giudizio che coinvolgerà tutte le nazioni; il Profeta suggerire che tutto sarà passato/vagliato nella prossimità di Yhwh. Il riferimento di Gioele apre alla visione mistica di Gerusalemme come città eterna, come città del cielo, e la valle di Giosafat - topograficamente l'avvallamento tra i pedi della spianata del Tempio e la valle del Cedron - diviene il segno escatologico della venuta di Yhwh: "poiché lì sederò per giudicare tutte le nazioni dei dintorni". La visione che noi stessi generalmente comprendiamo è quella del processo e del giudizio conseguente; ma il sedere di Yhwh rappresenta l'atto del re che si siede alle porte della città per essere vicino a chi entra e a chi esce, a chi vive nelle sue mura, a chi gli appartiene e a tutti quelli di cui lui ha cura. È forse da comprendersi in una visione pastorale del pascere il popolo. Ecco che il giudizio è ben diverso da una condanna o una assoluzione, ma è un condurre nella giustizia, nella vita, alla beatitudine e alla pienezza.
Anche la vita di Gesù è di per sé vicinanza di Dio, vicinanza fino alla prossimità di esistere nella nostra stessa esistenza. È questo il mistero dell'incarnazione che si evidenzia nella beatitudine che dal del grembo e al seno si genera nell'accoglienza della Parola, cioè il Vangelo nella vita: "nostra felicità/giudizio/beatitudine è il Vangelo".

giovedì 10 ottobre 2019

Malachia 3,13-20 e Luca 11,5-13
Chiedere, cercare, bussare ... con sfrontatezza!

Sul dizionario alla parola greca tradotta con sfrontatezza trovo anche "spudorata insistenza". Il senso dell'immagine acquista maggiore concretezza, siamo di fronte a un atteggiamento inconsueto, anzi, a una modalità sconveniente, anche irritante o irriguardosa. L'accostamento che Gesù pone alla esperienza della preghiera è proprio molto lontano dal modo consueto di educare alla preghiera.
"E disse a loro: ..." Dopo aver pregato con loro (dice il "Padre nostro ..."), Gesù trasforma quelle parole in vita concreta, non lascia le parole all'interno del sacro recito del Tempio; non le riduce a un dialogo sordo dei sacerdoti che offrono offerte e compiono così il loro servizio al Signore. La preghiera appartiene alla quotidianità, alla relazione di amicizia, essa si rivela come descrizione delle esperienze di normalità e in quelle mostra il suo senso:
- la richiesta: ciascuno di noi riconosce nella espressione di preghiera la propria insufficienza, si scopre limitato e nella necessità di essere portato a pienezza.
- la ricerca: ciascuno di noi sperimenta la preghiera come consapevolezza del cercare "quei pani" di cui solo gli altri (i fratelli, il prossimo) sono nella possibilità di dare.
- il bussare: ciascuno può essere insistente e bussare oltre misura, ma solo perché riconosce che dietro la porta c'è il volto di un amico.
Ecco allora che la preghiera esprime una relazione vera, riproduce la vita e i sentimenti, racconta la propria storia e chiede, accoglienza nel cuore del Padre; cerca compimento cioè un amore che sappia compatire; bussa e risuona fino allo "sfinimento" ovvero al compimento, cioè quando alla nostra preghiera corrisponderà solo l'essere esaudita.

mercoledì 9 ottobre 2019

Giona 4,1-11 e Luca 11,1-4
Tutto dipende dal Padre ...

Nella richiesta dei discepoli di Gesù, occorre riconoscere prima di tutto un desiderio di compimento: essi si sento irrealizzati; se si confrontano con i discepoli di Giovanni, colgono una differenza che è mancanza di riferimento a Dio. Percepiscono nel loro esistere un vuoto, una realtà incompiuta. E non da ultimo, certamente il fascino di Gesù che prega, che essi vedono pregare, pone in loro il desiderio di imitazione di emulazione, di appartenenza piena al maestro. Ecco allora che la risposta di Gesù arriva al cuore della richiesta.
Padre, una parola molteplice per le suggestioni che suscita in noi: profondità, ricordi, appartenenza, consapevolezza e a volte anche lotta e confusione ... Una parola che Gesù pone all'origine della preghiera, cioè della relazione, del dialogo, del comunicare dei discepoli con Dio. Gesù in queste parole pone il fondamento del nuovo Israele. Dio cessa di essere il Dio onnipotente "... misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato", per rivestirsi unicamente della parola "Padre".
In questa parola, io riconosco il mio essere, la mia origine, il mio compimento e anche il mio destino, come pure in quella parola Dio stesso mi si rivela. Dio in quanto Padre mi riveste del "Suo Santo nome" nel momento esteso che lo invoco. Mi riempie della sua Santità, non più inaccessibile, non più separata e custodita nel Santo dei Santi, ma data nel vincolo generativo della paternità. Il Padre mi mostra la mia eredità: "il suo regno", che è la sua vita donata, il suo esistere e il suo esserci nell'esperienza del mio esistere ed esserci. La preghiera per Gesù non è un gesto religioso formale univoco, unilaterale, ma è sempre una relazione di comunione, e nel momento che dico Padre e che riconosco il Padre, affermo il mio essere figlio e mi riconosco come tale.

martedì 8 ottobre 2019

Giona 3,1-10 e Luca 10,38-42
Io scelgo ciò che è necessario ... ciò che è buono!

Maria avrà pure scelto la "parte necessaria", ma se non ci fosse stata Marta a proporre l'ospitalità a Gesù; se non ci fosse stata Marta a preparare il cibo e l'accoglienza, l'ascolto di Maria avrebbe avuto ben altro esito. È facile ricadere nella contrapposizione Marta e/o Maria, lo stesso Vangelo apre inevitabilmente a questa interpretazione; ma è il senso reale che il Vangelo vuole suscitare?
L'evangelista Luca non ci ha appena raccontato la missione dei settantadue (il ministero/servizio all'annuncio del regno)? Non ci ha appena istruito circa il servire nell'amore i nostri fratelli (il buon samaritano)? Non ci ha suggerito la concretezza del servizio come riscontro per il discepolato e della relazione vera e positiva con il comandamento di Dio, quello di amare Dio e il prossimo? Leggendo per bene ... Come lo stesso Gesù dice al dottore della legge: "Nella legge cosa è scritto, come leggi?"
Occorre riconoscere che Maria, per non lasciare solo l'ospite gli fa compagnia: è un attenzione normale, che chiunque di buon senso avrebbe, mentre Marta che ha invitato Gesù subito si attiva per concretizzare l'ospitalità. Non sono rari i brani della scrittura in cui è descritta l'ospitalità (ad esempio lo stesso Abramo), l'ospite è sacro, e gode di un particolare riguardo e benedizione di Dio. Sarebbe scorretto rivestire lo sdegno di Marta come un puntiglioso rimprovero verso la sorella; Maria ha scelto la "parte buona" della medesima esperienza di accogliere Gesù, del mettersi a suo servizio. L'annuncio del regno dei cieli, l'esperienza dell'amore di misericordia, è un esercizio plurale che si genera nel l'ascolto della Parola del Signore - cosa estremamente buona e affascinante - e dell'agire morale che sono le opere buone, la cui bontà attinge dalla bontà della Parola. Della figura di Marta e Maria, occorre fare una sintesi, una comunione nella priorità della Parola che illumina il "buono e necessario".

lunedì 7 ottobre 2019

Giona 1,1-2,1.11 e Luca 10,25-37
Non è poi così facile amare l'altro!

Un sacerdote, un levita ... pure io, percorrendo la stessa strada spesso guardo e passo oltre. Quel sacerdote, anche lui scendeva verso Gerico, dopo aver svolto il suo servizio nella città Santa, dopo essere stato alla presenza del Signore; eppure nulla è trasfigurato in lui. L'amore a Dio è stato un gesto formale, legale, dovuto ... nulla ha generato l'amore e la compassione per i fratelli, per il prossimo. Un levita, anche lui scendeva verso Gerico, con tutta la preoccupazione del suo bel servizio, un vero servo di Dio, zelante delle "cose" della casa del Signore ... Certo che quella casa così perfetta come può accogliere un uomo ferito, un impuro, ... uno sconosciuto? Ecco che la casa di Dio è presidiata dal legalismo e non accoglie proprio nessuno, nessun pellegrino, nessun esule, nessun forestiero, nessun ... "Prossimo".
Ecco che Dio, ora pone di fronte all'uomo ferito, picchiato e abbandonato un Samaritano ... Questo non ha obblighi sacri che lo trattengono, non deve preoccuparsi di custodire la casa di Dio ... Egli avrebbe anche potuto disinteressarsene, senza tropi scrupoli di coscienza. Allora perché si è fermato, cosa lo ha spinto a soccorrere, a curare a prendersi cura di quell'uomo?
Dice Immanuel Kant nella "Critica della Ragion pratica": "il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me". È la compassione che permette al Samaritano di avvicinarsi all'uomo caduto nelle mani dei briganti, è la conseguenza della legge morale scritta nel cuore, e non il legalismo imposto dalle convenzioni che sviscera il mistero di amore. Questa Legge riflette il cielo stellato che ci precede per orientarci, ci sovrasta con leggerezza e ci circonda per custodirci dalla durezza dell'indifferenza. Questo riflesso di cielo sono proprio quelle parole che Gesù con dolcezza richiama alla memoria del dottore della Legge, allo studioso del mistero di Dio: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso"; ... E il prossimo tuo come te stesso ...

domenica 6 ottobre 2019

Ab 1,2-3;2,2-4; Sal 94; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10
Una fede grande ... come?

Signore ti chiedo di aumentare la mia fede!
Che cosa devi aumentare, Signore, per dare compimento alla richiesta degli apostoli,  richiesta che ora diviene anche la mia?
La prima costatazione può essere quella di chi riconosce di non fidarsi pienamente di Gesù, di stare con lui ma solo di "passaggio", di essere meravigliati delle sue parole, partecipe anche dei suoi segni, ma da questo a fidarsi di lui per affidargli la vita presente in vista di quella eterna ... "ne passa ..."!
In questa tiepidezza ci è tolto il mistero di noi stessi, il senso della nostra creaturalità. La nostra figliolanza da Dio Padre non rappresenta una dimensione esistenziale ma una schiavitù, un giogo di cui liberarsi ... Ma liberandoci da quel giogo, da quel "legame buono", neghiamo anche la possibilità dell'esperienza della fede.
Ecco che se chiediamo a Gesù di rendere grande, di aumentare la nostra fede, significa che vorremmo che la fede occupasse - come dire - gli spazi della nostra vita.
Ma ora occorre mettere attenzione alla risposta di Gesù. Egli offre almeno due indicazioni esplicite:
1) Prendi coscienza reale della tua Fede. Forse la nostra fede ci sembra piccola, incapace del mistero e della relazione con il Signore. Non importa essa è come un granello di senapa. Se ci accorgessimo di questo, accadrebbe un evento straordinario ... cioè l'immediata crescita dell'atto di fede. Ecco allora che nella dimenticanza mi rendo conto che sono io che non curo sufficientemente il seme di senape ... Non me ne prendo adeguata cura! (Preghiera, vangelo, Chiesa, eucaristia, riconciliazione, carità, misericordia, compassione ... Tutte robe, tutti piccoli semi di senapa buttate lì senza vero utilizzo)
2) La fede si genera quando sono un servo del Signore. Quando la mia libertà diviene lo spazio in cui accolgo Gesù e offro a lui lo spazio della mia esistenza; ecco che in quello "stato di vita" mi pongo nella condizione del servo inutile ... ma che in realtà è il servo che si affida totalmente al suo padrone. Finalmente gli appartengo.
È questa la fatica maggiore, scegliere liberamente di appartenergli.
"Signore, aumenta la nostra fede ..." -Figliolo non posso aumentare nulla se tu non te ne prendi cura per te stesso e se mi relighi al margine della tua vita -.

sabato 5 ottobre 2019

Baruc 4,5-29 e Luca 10,17-24
La nostra vera gioia!

Il brano di Luca, propone una suggestiva inserzione: non semplicemente il racconto della "missione dei settantadue - che cosa hanno fatto - ma la descrizione della reazione di Gesù: sembra che la gioia di Gesù corrisponda all'esperienza della nostra soddisfazione per la missione compiuta.
Che cosa è stata l'esperienza dei discepoli? Che cosa ha voluto rappresentare? Quali conseguenze ha generato?
Tutte domande lecite che si condensano in una esperienza necessaria e basilare: essi hanno agito non tanto nel fare missione e annuncio, ma nell'essere mandati ad annunciare.
Essi hanno vissuto con la gente le stesse esperienze fatte con Gesù! La fraternità; la fiducia e la fedeltà al maestro; la comunione e la condivisione; l'accoglienza e la carità; la responsabilità come cura di ciò che mi è affidato.
Tutto ciò che hanno vissuto non era funzionale al loro essere mandati ad annunciare il regno di Dio; prima, e ancor prima, quella esperienza di missione ha rappresentato il luogo in cui essi hanno fatto esperienza della loro fede, della loro scelta di amore, del loro appartenere a Cristo. La gioia di Gesù è la gioia di chi si sente corrisposto dalla scelta di vita del discepolo. Non è una gioia derivante dall'aver "prodotto" il regno dei cieli, non è una gioia funzionale, ma dall'essere stato colmato di amore attraverso la corrispondenza delle scelte di vita. Credo sia questo il senso vero e profondo del fatto che i dei nomi dei discepoli sono scritti nel cielo: la nostra vita è nel cuore del Padre.

venerdì 4 ottobre 2019

Galati 6,14-18 e Matteo 11,25-30
Festa di San Francesco d'Assisi, patrono d'Italia
Portiamo le stigmate di Cristo nel corpo 

È una forma di misticismo l'esperienza che Paolo racconta: nel suo corpo non riconosce più i segni della circoncisione, quale garanzia di appartenere al popolo di Israele, ma il segno della "nuova creatura" (conformata a Cristo) in forza dell'amore di Gesù.
Sperimentare l'amore di Gesù per ciascuno di noi risulta una esperienza particolare, perché amare per Gesù significa morire per donarci la sua vita; significa spezzarsi come pane per essere condiviso; significa essere versato per essere offerto! Sono queste le stigmate di cui Paolo fa esperienza, e che a volte trovano riflesso anche nella nostra carne. Ma lo stesso Vangelo, non pensiamo che sia una dolce compensazione alle fragilità e fatiche della vita. Saremo degli ingenui se pensassimo questo!
La consolazione che Gesù ci dona, è parte del mistero della sua passione; una passione che rappresenta il limite, la fatica, l'ingiustizia del mondo, realtà tutte che trovano nella immersione nella vita di Gesù lo spazio della loro piena e travagliante manifestazione; come pure l'urgenza della loro redenzione o risoluzione ("salvezza": mistero rivelato ai piccoli), cioè lo spazio dove incontrare l'amore del Padre che è riversato nella vita del suo figlio ("Tutto è stato dato a me dal Padre mio ...", tutto il suo amore di Padre).
Non scandalizziamoci dunque della fatica; non scartiamo la fragilità nostra e degli altri; non sottraiamoci ad accompagnare (compatire) il cammino dei fratelli; è quello il "giogo" che ci conforma a Cristo mite ed umile! Non sono forse umiltà e mitezza la piccola via della santità di Francesco e di altri con Lui? Ecco che amare è soprattutto compatire!

giovedì 3 ottobre 2019

Neemia 8,1-12 e Luca 10,1-12
L'ascolto genera l'identità di popolo.

L'autorevolezza di Esdra garantisce la relazione del popolo rispetto al Libro. Il "popolo" si riconosce tale perché Esdra lo convoca per ascoltare la proclamazione del Libro. Ecco che uomini e donne, e quanti erano capaci di intendere, tutto il popolo tendeva l'orecchi al libro della legge: "popolo in ascolto". La legge diviene in forza dell'ascolto fonte della conoscenza, della moralità e da commozione del popolo stesso: "Neemia, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge."
Da questo momento di Ascolto, il popolo acquista identità, cessa di essere un aggregato per divenire un corpo unico; cessa di essere esiliato perché trova una stabile dimora nel Signore: "il popolo aveva compreso le parole che erano state loro proclamate".
Ascoltare la parola, meditare la parola, pregare la parola ... È da questa nostra e personale disponibilità che si genera l'identità, si genera il popolo di Dio. Ed è dell'identità dell'ascolto che ci manifestiamo come missione di annuncio della Misericordia di Dio Padre: se siamo popolo di Dio, siamo infatti un popolo salvato da Cristo; segno di salvezza per tutti i figli di Dio. Il popolo di Dio, la Chiesa di Cristo, non è quindi la multinazionale della fede, ma la condizione di possibilità per l'uomo di riscoprirsi figlio di Dio, amato è chiamato alla vita eterna: sua piena felicità.

mercoledì 2 ottobre 2019

Esodo 23,20-23 e Matteo 18,1-5.10
Santi angeli custodi
Il mio messaggero è davanti a te ...

Quando Gesù utilizza il bambino come immagine per proporre l'appartenenza al regno dei cieli, introduce ed utilizza anche una categoria ben nota a tutta la "Scrittura", quella dell'angelo. Se non ci convertiamo cioè se non torniamo a pensarci come i bambini che tendono la mano e si lasciano condurre, non entreremo nel Regno dei Cieli. L'angelo rappresenta, biblicamente, una figura di mediazione, di protezione, di vicinanza ... Il messaggero della volontà di Yhwh; esso riconduce alla relazione con Dio Padre. Credo che occorre, allora, andare ben oltre l'idea dell'angelo come reminiscenza astrale propria della cultura Mesopotamia. Gesù presenta l'angolo come un vero protettore, quasi un vendicatore di quei bambini che essendo i piccoli, essendo i fragili, gli umiliati; essendo coloro che sono normalmente non apprezzati e considerati, essi sono i prediletti di Dio, per cui eredi del Regno dei Cieli.
Abbiamo bisogno degli angeli per tornare ad essere come bambini. Abbiamo bisogno degli angeli per essere condotti, come il popolo di Israele, alla libertà della terra promessa. La figura dell'angelo al di là di ogni infantilismo e preconcetto ha un enorme significato teologico, per richiamarci alla presenza di Dio che non si discosta dalla nostra esistenza, anzi l'angolo testimonia come la nostra esistenza appartiene a Dio, e a Lui appartiene tutta la nostra vita in conversione; cioè in quel processo di umanizzazione che ci matura fino ad essere volontà di Dio.

martedì 1 ottobre 2019

Zaccaria 8,20-23 e Luca 9,51-56
Di te si dicono cose stupende città di Dio ...

L'ultimo pellegrino "fai da te" che è andato a Gerusalemme, tornato mi ha chiesto: "ma come facciamo ad essere certi che Elena - madre di Costantino - abbia trovato realmente i luoghi della crocifissione, morte, sepoltura e risurrezione di Gesù, e non se li sia inventati? Innanzi tutto bisogna predisporre il nostro cuore e la nostra mente a capire che Gerusalemme è ben più di una città, più di una città Santa. Gerusalemme è segno e sacramento della dimora di Dio, un "briciolo di Dio" nel marasma del mondo. Un lampo di luce nelle tenebre della notte; il porto sospirato di chiunque viaggia in cerca del dimorare in Dio. È in questa prospettiva che Gerusalemme diviene "la città del nostro Dio, Dio l'ha fondata ore sempre!"
Nel l'orizzonte della città di Dio si condensano le speranze e la storia del popolo di Israele, ma anche di tutti i popoli: "Così popoli numerosi e nazioni potenti verranno a Gerusalemme a cercare il Signore degli eserciti e a supplicare il Signore".
In un intreccio stupendi di vita, leggende e storia, si drive il passato, il presente e il futuro della città di Dio, e l'eco delle narrazioni apre alla comprensione dei segni della presenza di Dio. Per cui la testimonianza della prima comunità cristiana, le tradizioni orali dei racconti della tomba di Adamo nel giardino della grotta, servirono ad Elena per individuare i luoghi della passione e risurrezione. Ma lo stesso Vangelo ci testimonia come il sale a Gerusalemme di Gesù è salita al calvario, e insieme la trasfigurazione del volto che traduce tutta la conformazione di Cristo al mistero di amore del Padre, per poter generare la redenzione dell'uomo a partire dalla sua stessa vita. Non c'è più alcun tentennamento, a Gerusalemme appartiene il mistero della redenzione. Elena, quindi, si è lasciata condurre dalla stessa ferma decisione di Gesù di dimorare pure Lui, "nella città del grande Re", e ne ha trovato le tracce di un passaggio umile, umiliante e glorioso.