martedì 31 marzo 2020

Numeri 21,4-9 e Giovanni 8,21-30
Mistero della Croce ...

"Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono", questa frase del Vangelo la colleghiamo facilmente con l'innalzamento in Croce, vera Glorificazione di Gesù, nel Vangelo di Giovanni, e certamente rappresenta un contenuto adeguato, ma non l'unico. Credo che la lettura più profonda di questo contenuto vada fatta partendo dal Prologo, lì dove si dice al v. 14 si dice che "è noi vedemmo ma sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità". È in questa possibilità di vedere e comprendere la Gloria, che anche l'innalzamento diviene conoscenza della "divina stupidità", quella che Paolo definisce scandalo o stoltezza della Croce. Vedere la Gloria nella persona e nella vita di Gesù non è stato facile per i giudei, figuriamoci per noi. Ma di fronte a tutti, l'esempio di Nicodemo (capitolo terzo di Giovanni) da risposta a tante domande che costantemente contornarono il ministero pubblico del Signore. Di fronte al desiderio di Nicodemo di conoscere Gesù, il Signore stesso rivela molto di più di quanto chiesto, e pone Nicodemo di fronte alla prospettiva di nascere di nuovo, dall'alto, dallo Spirito. Nascere dallo Spirito, nascere dall'alto è la nostra esistenza portata a pienezza dalla fede. La fede produce il nostro abbandono al Padre, il nostro collocarci nella sua volontà e salvezza, senza pretese e senza presunzioni. Innalzamento cosa è se non l'affidarsi di Gesù al Padre al punto di accogliere come volontà di Dio la pazzia degli uomini, e il loro peccato. È pazzia uccidere Dio, è peccato inchiodarlo alla croce ... Ma Gesù fa della nostra pazzia e del nostro peccato il vertice della sua rivelazione "io sono".
Nocodemo chiedeva a Gesù di farsi conoscere, la fede ci conduce ai piedi della Croce per conoscere chi è l'innalzamento: il Verbo di Dio. Conoscere il "mistero" della croce è accogliere la possibilità di parteciparvi ... Solo nascendo dall'alto, per la fede nel battesimo ricevuto, avremo la forza di abbracciare Cristo in croce.

lunedì 30 marzo 2020

Daniele 13,42-62 e Giovanni 8,1-11
Anche se vado per valle oscura, non temo nulla ...

La Parola di questi ultimi giorni si ammanta della pienezza che l'evangelista Giovanni testimonia dell'ultima salita di Gesù a Gerusalemme per la Pasqua. In realtà apre alla comprensione di un umano travagliato e incapace di accogliere il mistero se non nell'esperienza del limite e della fragilità, se non in colori che seppur riconosciuti peccatori, hanno in loro il desiderio di una vicinanza ... la sola che non tradisce e che non rinnega la possibilità di amarli. È questa esperienza che fa la differenza!  Quella che Giovanni testimonia attraverso la vita di Gesù: l'amore del Padre di cui Gesù fa esperienza, e che ci divide con i discepoli e gli amici, è lo stesso amore che non viene mai meno - un amore fedele -, che Gesù condivide con i peccatori. Ecco allora che il Salmo di oggi, il ventiduesimo salmo del Salterio, ci da testimonianza di quanto è stabile e immutabile l'amore di Dio, riversato nel figlio e nei figli: "Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza. (...) Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita." Ed ecco che anche quella donna trascinata a di giudizio davanti al trono di Dio, dalla "giustizia" di scribi e farisei, può ben sperare di essere accolta invece dall'abbraccio della misericordia. Gesù non asseconda le attese di quei "giudici" assetati di vendetta, egli si schiera per amore della peccatrice, dalla parte di chi, seppur peccatore, trova nella fedeltà dell'amore del padre, l'unica via di uscita . È in questa prospettiva che oggi possiamo guardare le vicende che stiamo vivendo per non lasciare troppo spazio alle logiche, purtroppo umane, che ancora abitano il nostro cuore.

domenica 29 marzo 2020

Ezechiele 37,12-14; Salmo 129; Romani 8,8-11; Giovanni 11,1-45
Amico vieni fuori ...

Anche noi oggi, per certi versi, è come se fossimo dentro il nostro sepolcro: abituati a pensare che vivere corrisponde a poter uscire, viaggiare, lavorare, e agire in funzione dei nostri progetti e pensieri; vivere è dare libertà ai sentimenti, alla possibilità di amare; oggi tutto questo è limitato. Ci sembra di essere nel sepolcro delle nostre quattro mura di casa. Ma ci può essere qualcosa di ancora peggiore! Corriamo il rischio di abituarci anche questo genere di morte, al punto che tutto di noi tende a accettare questa condizione come unica possibile per tutelare la salute e una strana forma di esistenza. Ma in realtà rischiamo di morire alla relazione umana; l'altro non è più un fratello, ma uno da cui guardarmi bene, perché potrebbe contagiarmi. Gli amici non sono più così importanti, non riempiono più i miei pensieri, le mie attenzioni o le me mie serate ... e poco per volta li sto dimenticando. Il cattivo odore del sepolcro, di Lazzaro dopo queste settimane esce anche dal nostro sepolcro, è l'odore del nostro nuovo modo di vivere.
Cosa significa essere credenti, cosa significa vivere questa limitazione come discepolo di Gesù? Come poter aderire realmente a queste parole del Vangelo di oggi?
So per certo che Gesù amava Lazzaro, Marta e la sorella Maria, più volte Giovani ci dice questo. Li amava proprio tanto, e proprio per questo non lascia Lazzaro chiuso in quel sepolcro, ma con le lacrime agli occhi grida davanti a quella tomba: "Lazzaro vieni fuori!"
Dio piangere e grida ... Non solo per sfogo, ma per trasformare l'amore e l'amicizia in una forza di vita. È l'amore del Padre che Gesù vive in sé che gli permette di chiamare fuori dal sepolcro il suo amico Lazzaro.
Oggi di fronte ai nostri sepolcri ... domestiche case ... In cui stretti gli uni agli altri attendiamo pazienti che tutto finisca, il Signore chi chiama ad uscire dalla nostra vita per dare nuovo spazio ed espressione all'amore e alla amicizia. Non possiamo permettere che questa limitazione, che questo virus maligno, annullino la nostra umanità dentro l'indifferenza è la paura, dentro queste quattro mura ...
È la nostra vita di oggi che Gesù chiama fuori dalla sua tenebra di morte.
Questa è la risurrezione! Credere che Gesù ci chiama a vivere ora, e nella vita reale per non morire in noi stessi nel silenzio e nella solitudine. Ci chiama a vivere la verità dei sentimenti, la fragranza delle relazioni e a inventare modi nuovi di esprimere amore, attenzione e vicinanza. 

sabato 28 marzo 2020

Geremia 11,18-20 e Giovanni 7,40-53
In tutto ... A te mi affido o Signore ...

Il clima politico e religioso che caratterizza, secondo l'evangelista Giovanni, il tempo in cui Gesù, salito a Gerusalemme, progressivamente rivela attraverso di sé la gloria del padre - cioè afferma il Dio con noi, attraverso la sua persona e le sue parole -, è un clima di confusione e smarrimento. Proprio quando anche i capi si sentono prossimi a mettere le mani su di lui - "Le guardie tornarono quindi dai capi dei sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: «Perché non lo avete condotto qui?" - anche quella possibilità sfuma - "E ciascuno tornò a casa sua" -. Ma nel cuore di quella gente ritenuta incolta e senza Dio, al punto che i loro stessi capi dicono - "Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!" - l'incontro con Gesù e l'ascolto delle sue ostile hanno acceso desideri sopiti, e attese ormai insperate: "Costui è davvero il profeta! Altri dicevano: Costui è il Cristo!". La gloria del padre si manifesta anche lì dove regna la confusione e il dissenso dell'umano. È dentro il nostro intimo che oggi va cercato il Padre. In questo spazio ristretto delle nostre abitazioni, il nostro cuore rappresenta lo spazio senza limiti in cui ritrovare la vicinanza di Dio. Nella scarsità dei contatti umani e di amicizia possiamo sentire il desiderio di un amico caro, come pure il desiderio di Gesù. Nella vicinanza a chi da settimane ci è accanto riconosciamo il senso della prossimità come antidoto alla solitudine e all'abbandono. Signore - dice il salmo 7 -, mio Dio, in te ho trovato rifugio: (...) Il mio scudo è in Dio: egli salva i retti di cuore; cioè chi non lascia  indurire il proprio cuore nella meschinità del male.

venerdì 27 marzo 2020

Sapienza 2,1.12-22 e Giovanni 7,1-2.10.25-30
Sono venuto per oggi!

Nel capitolo settimo di Giovanni, nelle parti che sono state tagliate alla lettura di oggi, l'evangelista traccia un panorama interessantissimo della considerazione della gente circa Gesù: "E Il mormorio su di lui era molto tra le folle: alcuni dicevano: È buono; altri invece dicevano: No! Inganna la gente. Nessuno tuttavia, apertamente, parlava di lui per paura dei giudei" (vv. 12-13). E al v.15 ci si chiede: "Come mai questo sa di lettere pur non essendo stato a scuola". È un crescendo di considerazioni, supposizioni e di contrasti; fino al punto in cui Gesù nel Tempio, grida: "Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato".
L'autocoscienza di Gesù è tale che non può tacere il suo essere "mandato", ma è pure evidente che le sue esternazioni e manifestazioni, aprono al rifiuto e all'esplicito tentativo delle autorità giudaiche di farlo tacere, mettendolo a morte. È questo lo sfondo che non va mai dimenticato di fronte al Vangelo e all'esperienza dell'annunciarlo, sarebbe illusorio credere a un Vangelo che entra dolcemente e senza resistenze nell'umano e venga accolto con disponibilità da parte di tutti.
Il mondo segnato dal peccato reagisce al Vangelo con forza estrema, perché il Vangelo è l'anti peccato. Se il peccato è come un virus che si insinua nelle cellule umane portandole alla morte, il Vangelo è l'unica antidoto che permette di reagire al male in modo vincente, non è una terapia ma è il modo di immunizzare l'uomo, riportandolo nella condizione originaria e nella possibilità di reagire prontamente ad ogni male. Gesù per questo è stato mandato dal Padre, non solo ieri nella storia del popolo eletto, ma è stato mandato per essere per sempre possibilità per ciascuno di rigenerare la propria umanità. Non dobbiamo stupirci dell'oggi, Gesù è stato mandato anche per l'oggi.

giovedì 26 marzo 2020

Esodo 32,7-14 e Giovanni 5,31-47
Dove cerchiamo la vita? Tra misericordia e miseria!

Il desiderio di vita, per la maggior parte di noi oggi, si esprime nel desiderio di libertà, nella possibilità di tornare a vivere le esperienze di una vita "normale": andare a fare la spesa; guidare l'automobile; raggiungere le colline per la scampagnata; mangiare una pizza con gli amici; una partita a carte con i compagni di sempre; farsi i capelli dalla parrucchiera; poter cantare con l'amica del cuore la canzone del momento ... Tutte esperienze che in un modo o in un altro, ora, non possono più essere vissute con la stessa intensità e possibilità. Credo che per molti valga l'esperienza di derelizione, quella di sentirsi abbandonati a se stessi anche di fronte all'inevitabile fatalità del contagio. Quest'ultima, una esperienza di drammaticità assoluta, se là si pensa anche come derelizione della fede e del rapporto con Dio. Miserere ... Miserere ... Lo cantava anche Zucchero, hanno ispirato queste parole in poesia (me le ha inviate stanotte un caro amico):
"Misero l’essere umano nella solitudine, nella bellezza e nell’amore.
Misero l’uomo davanti all’uomo, ai suoi sentimenti e al suo spirito.
Miserabili i suoi rimasugli dinanzi al dolore, le sue forze nella tempesta, la sua luce nell’oscurità
Misero il suo respiro nella natura, il suo battito nell’universo.
Miserabile è la sua speranza sotto la croce, il suo suo grido nel silenzio del mistero 
Miseri per sempre i suoi sogni.
Misere le sue azioni, le sue speranze e le sue parole.
Nella miseria della sua anima, miserabile è finalmente anche il suo limite".
È la nostra esistenza che invoca misericordia, è il desiderio di vita che grida "abbi misericordia di noi"; della misericordia infinita da un Dio, padre buono. Non possiamo arrenderci alla tentazione dell'abbandono. Anche Gesù di fronte alle logiche senza speranza è senza Dio vero, apre alla conoscenza del mistero mediante l'esperienza della Misericordia. La testimonianza del Padre in lui, è la sua misericordia in soccorso alla nostra miseria. È in questo dinamismo che riscopriamo di avere in noi l'amore di Dio. 
Nell'esperienza di derelizione, quando si sente abbandonato da tutti e da tutto, Gesù  grida al Padre, e invoca la sua vicinanza. È questo il dinamismo della testimonianza del Vangelo di Giovanni. Lo fa allora con la stessa intima speranza di chi ha conosciuto Dio e sperimenta anche nella miseria la presenza del Padre misericordioso, sempre.

mercoledì 25 marzo 2020

Isaia 7,10-14; 8,10 e Luca 1,26-38
Il segno è ... Dio con noi

"Ecco io vengo, per fare o Dio la tua volontà", cioè per essere il Dio con noi. Il rischio di tutti i credenti è di imprigionare nella grotta di Nazareth, nelle pietre della casa di Maria, il mistero della vicinanza che è l'incarnazione del verbo. Imprigionare in un luogo per quanto affascinante e capace di generare suggestioni spirituali di altissimo valore, sarebbe sempre un limitare la portate di quelle parole che Maria sente in lei per bocca dell'angelo: "Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te".
Dio è con noi! È la sua vicinanza che rende tutto diverso, e ci permette di toccare come la grazia e la salvezza hanno a che fare realmente con la nostra umanità. Il mistero che abita quella semplice e povera casa a Nazareth, non serve per renderla un sacrario per i tempi futuri, e neppure perché in quel luogo siano edificate in successione Chiese e Basiliche imponentissime è altrettanto belle, a testimoniare lo stupore della fede di fronte a un mistero così "grande". Il mistero di quelle Parole, che dicono accoglienza, dicono Dio con noi, quelle pietre non possono più contenerlo, ma si dilata e riecheggia nel cuore di ogni uomo che nasce in questa terra. Il cuore di ciascuno diviene la casa di Nazareth! Dio è con noi ... Il Verbo si fece carne e abita in noi ... Ora, e soprattutto dove il cuore dell'uomo oggi si apre ancora al mistero della sofferenza, del dolore e della prova ... Forse proprio in quegli ospedali che oggi sono il crocevia delle speranze, delle attese e della fatica di tanti, fino anche alla condizione estrema della morte, che sembrerebbe negare ed escludere che Dio è con noi. Ma Dio è con noi proprio anche nel nostro morire, anche quando nessuno di noi può essere accanto a chi ama, anche solo per stringergli la mano in quell'ultimo e faticoso sforzo, prima di nascere alla nostra vita eterna: noi con Dio.

martedì 24 marzo 2020

Isaia 65,17-21 e Giovanni 4,43-54
Ecco io faccio un segno ...

"Ecco, io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente, poiché si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare, poiché creo Gerusalemme per la gioia, e il suo popolo per il gaudio".
È il Signore che agisce, è lui che compie i Segni necessari alla nostra vita e alla nostra relazione con Lui. Dobbiamo ripartire da un fondamento antropologico che ci ricollochi - seppure all'apice della creazione - nella condizione di creatura. Purificati dal delirio di superba onnipotenza ed ubriacati nell'indifferenza verso chi ci ha creati, ci siamo illusi di avere il potere su tutto, come se fosse tutto saldamente nelle nostre mani.
Ascolta, Signore, abbi pietà di me, Signore, vieni in mio aiuto!
È questa la supplica che si eleva a Dio con le parole del Salmo: una supplica che è l'affidamento che nasce dall'esperienza del vissuto; che è anche la preghiera di quel padre che oggi si tori volge con fede a Gesù. Questo grido posso smettere di rivolgerlo verso il vuoto, occorre che lo rivolga a quel Dio accanto, che soffre con me della mia stessa sofferenza e che sperimenta la mi fragilità nel mio quotidiano.
Anche noi, ora, smarriti a causa delle nostre paure, in realtà chiediamo un segno che ci dia conforto e sicurezza. Nella preghiera iniziale della Messa di oggi, preghiamo così: "O Dio, che rinnovi il mondo con i tuoi sacramenti,  fa’ che la comunità dei tuoi figli  si edifichi con questi segni misteriosi della tua presenza  e non resti priva del tuo aiuto per la vita di ogni giorno". Gesù sa che abbiamo bisogno di segni per credere e per edificarci come sua Chiesa; egli conosce pure la nostra inadeguatezza rispetto alla fede. Dobbiamo ammettere che questa epidemia a creato situazioni inaspettate: messe, catechesi, messaggi, omelie in rete, momenti di preghiera e Adorazioni, via crucis ... Tutto rigorosamente in "streaming" (diretta video).
Ma dobbiamo ricordarci che il "Sacramento virtuale" non esiste, il Segno di Dio non si realizza in una condizione in cui non sia la dimensione umana e relazionale a determinare lo spazio della fede. Il Sacramento per essere segno di Dio ha bisogno di un uomo di carne ed ossa, non una immagine di uomo per essere segno efficace. Questo non per un nostalgico rigorismo, ma per ricollocare il fondamento antropologico nella creatura reale e non virtuale, bisognosa di relazioni autentiche ... Oggi sperimento che ho fame degli altri, dei miei fratelli ... Il "Segno di Dio" sazia la fame, perché il Segno è relazione con lui.

lunedì 23 marzo 2020

Ezechiele 47,1-9.12 e Giovanni 5,1-16
Faceva queste cose di sabato

Come dire: "Gesù se le cerca proprio ...."; "Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato".
Quanto accade al paralitico; come anche accadrà al cieco; avviene sempre in un contesto parallelo alla liturgia ufficiale. Al centro dello sfondo del racconto, infatti, ci sta il Tempio e la sacralità dei suoi riti: la Pasqua, il riposo del Sabato, la festa delle Capanne e la Purificazione del santuario ecc ...
Gesù è frontalmente in rotta di collisione con l'istituzione religiosa rappresentata dai sacerdoti, scribi e farisei, ed espressa con rigore nella liturgia ufficiale di Israele. Ma proprio in forza di questa situazione, i gesti che Gesù compie, nel giorno di sabato, rappresentano ben di più della violazione della Legge: "È sabato e non ti è lecito portare la tua barella». Ma egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: “Prendi la tua barella e cammina”; in modo analogo anche per il cieco nato, Gesù compie un gesto: fare del fango e spalmarlo sui suoi occhi, poi lo manda a Siloe a lavarsi; un susseguirsi di agiti e di azioni che infrangono il Sabato, il giorno del riposo, il giorno della festa. Ma in Giovanni, come altre volte abbiamo detto, questi non sono mirarli, ma Segni. Dobbiamo anche noi entrare nel Segno sacro di Dio, nel concerto di Segno come Sacramento di Cristo. Non sono miracoli che rivelano la potenza, ma sono Segni che esprimono la presentata salvifica nella sua efficacia. È l'amore di Dio per la sua creatura umana che il Segno realizza. Quale è il bene del paralitico? Quale è il bene del cieco? Il vero bene è la nostra salvezza (liberazione dal male, redenzione) ed essa si compie (viene realizzata) nel riposo del sabato, nel Sabbà, giorno di Dio e di tutta la creazione, giorno che culmina con la risurrezione. Questi Segni, Sacramenti della presenza amorosa di Yhwh, preparano il grande segno della risurrezione, che come ci dice l'evangelista Giovanni: "Ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme"; la vera festa dei giudei nella quale Gesù sale a Gerusalemme, sarà la sua ultima Pasqua in questo mondo, ma pasqua eterna di redenzione, il vero segno del riposo, il vero Sabbà.

domenica 22 marzo 2020

CIECO NATO. Gesù apre gli occhi

Gesù fa del fango e lo spalma sugli occhi di questo uomo cieco; lo manda a lavarsi a Siloe e all'improvviso il cieco si accorge di vederci. Tutto questo è ciò che Giovanni ci racconta, non di più. Altrove sarebbe stato annoverato tra i miracoli di Gesù, non qui ... Qui non siamo di fronte a un "semplice" miracolo.
Questa cecità è un simbolo; essa esprime la condizione di profonda cecità umana, di chi non sa e non conosce il mistero di Dio.
Tutto il brano del cieco nato è una fortissima esperienza di un uomo che si apre alla fede e che Giovanni ripropone per tutti i discepoli, di tutti i tempi, perché prendano coscienza che il Battesimo è proprio l'apertura degli occhi, alla visione del mistero di Dio, mediante e attraverso Gesù. È una profonda relazione con lui che ci porta a professare e vivere intensamente e senza esitazioni che "Gesù è il Signore".
Il nostro vedere, come discepoli non può essere separato dal vedere che Gesù ci dona, ecco perché possiamo sottolineare come nel momento stesso in cui il cieco passa dalla cecità alla visione, il suo vedere significa riconoscere chi lo ha guarito: "Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?". Egli rispose: "E chi è, Signore, perché io creda in lui?". Gli disse Gesù: "Lo hai visto: è colui che parla con te". Ed egli disse: "Credo, Signore!" Ed ecco che il vedere diventa credere!
Proprio in questo tempo in cui di assistiamo ancora alla lotta tra la tenebra e la luce, tra la cecità e la visione, è l'incontro con Gesù che fa la differenza e che ci introduce nel vedere di Dio.
La visione del mistero alla quale oggi Gesù apre i nostri occhi è proprio qui, in questa nostra fatica di questi giorni di Epidemia Virale.
Cosa vediamo in questo momento? Forse ci sembra di essere ancora più ciechi di prima che scoppiasse questa Pandemia, ma Gesù ha spalmato fango sui nostri occhi perché ci lavassimo all'acqua viva ...
Vedo, non vorrei essere superbo ma credo di vedere come la realtà che viviamo chiede realmente di convertire i nostri stili di vita cristiana, e non solo, per purificare la Chiesa per come l'abbiamo ridotta ...
-  Lacera nelle divisioni, nelle invidie, negli interessi di parte;
-  Sporca delle calunnie e degli intrighi;
-  Impura per i soprusi all'innocenza dei piccoli e dei semplici;
-  Non amata, anzi odiata, perché vista come una Istituzione umana e non a una madre che a cura dei figli di Dio.
Credo proprio di vedere qualcosa stando davanti al Crocifisso; davanti al Signore nel segno del pane; quel pane che ogni giorno continuiamo a consacrare sull'altare di una Chiesa che attende di diventare casa della famiglia di Dio.
· Cosa vedo? Vedo una Chiesa che deve sciogliersi con più familiarità nella realtà che viviamo, bella o brutta che sia ...
· Cosa vedo!? Vedo una chiesa fatta di famiglie, di persone che hanno riscoperto la necessità di un Dio dentro le loro vite quotidiane e non un Dio delle celebrazioni solenni due volte all'anno o delle processioni.
· Cosa vedo? Vedo una chiesa attenta a custodire la Parola come presenza reale e vicinanza del Signore Risorto, indipendentemente dai riti e dalle festività religiose.
· Cosa vedo? Vedo una chiesa fatta di gente che sceglie la vita di preghiera scandita nella quotidianità dei giorni ...
· Cosa vrdo? Vedo una chiesa attenta al prossimo e disposta ad amarlo, per poter amare di Dio Padre ...
· Cosa vedo ? Vedo una chiesa con la C maiuscola, che si fa piccola per essere immagine di quella chiesa del cenacolo, quella chiesa delle origini, così vicina al suo Signore e così innamorata di Lui ... cosi comunità, ma sul serio, non per finta aggregazione …

sabato 21 marzo 2020

Osea 6,1-6 e Luca 18,9-14
Entrare nella misericordia

"Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce." Sono le parole di Osea (prima lettura), il nostro amore non ha stabilità, noi lo vediamo nel suo apparire, ma non ha concretezza nel rimanere. Questa è l'immagine che meglio può interpretare la presunzione di chi si sente "Giusto", ma della sua giustizia non fa casa con nessun altro. Chi presume di essere giusto davanti a Dio, ha già reso il proprio amore per Dio, inconsistente ... Nelle parole di Gesù non dobbiamo raccogliere l'ennesimo giudizio di condanna e nemmeno l'ulteriore rimprovero alla nostra incapacità ad essere misericordiosi. Gesù non si pone come giudice delle nostre fragilità umane. Vorrei andare più a fondo, vorrei comprendere il cuore di Dio di fronte ai suoi figli fragili: l'uno presuntuoso e fariseo  ... ma si è impegnato tantissimo, moralmente, per fare tutto ciò che gli è stato insegnato ... ma in lui l'amore per Dio e per il prossimo non ha trovato posto; l'altro, che giudicheremo uno "sfortunato", un pubblicano, uno che non ha mai voluto stare ai dettami delle regole e degli insegnamenti, ora, sperimenta solo il suo peccato, in lui amare era un gioco. Credo che le parole di Gesù siano prima di tutto un invito a riconoscere la personale fragilità, senza incorrere nel "bisogno morboso" del giudizio; occorre veramente accorgersi e riconoscere che la misericordia di Dio offre a entrami (giusto e peccatore) - nel mettersi di fronte all'onnipotente (siamo nel tempio a pregare) -, la possibilità di recuperarsi nel sentirsi amati, nel sentirsi accolti. Se restiamo dentro i nostri schemi di fariseo e pubblicano, non abbiamo scampo, e ... forse  uno solo si salva! Offrire a Dio la fragilità significa offrire a Dio il nostro essere fariseo e il nostro essere pubblicano, per chiedere a Dio di compensare la nostra inconsistenza con la sua misericordia ... Solo questo cambia la prospettiva: nel tempio, e quella in uscita dal tempio. 

venerdì 20 marzo 2020

Osea 14,2-10 e Marco 12,28-34
All'ostilità si risponde con l'amore 

Negli anni in cui Gesù a agito pubblicamente, camminando da un villaggio all'altro, parlando, compiendo segni e miracoli, effettivamente una certa risonanza ci deve essere stata. L'appellativo di "maestro, o profeta che viene dalla Galilea" ..., "e cosa mai di buono può venire dalla Galilea, lo dicono anche le scritture", fra scribi e farisei era comune convinzione. È in questo clima un poco avvelenato che possiamo leggere la domanda riportata nel Vangelo che uno scriba rivolge a Gesù: "Qual è il primo di tutti i comandamenti?" È una domanda che giunge dopo un ampio e acceso confronto che il Vangelo di Marco denuncia attraverso la Parabola dei vignaioli omicidi, e gli affondi di farisei, erodiamo e sadducei, sulla sua identità e autorità.
"Se sbagli la risposta a questa domanda, che è la prima, figuriamoci su tutto il resto del contenuto della Legge e dei Profeti ..." Questo poteva essere lo sfondo che ha motivato questa domanda così netta e perentoria.
Di fronte a una così chiara ostilità, di gente e di capi del popolo, di fronte allo sprezzante rifiuto della proposta del Vangelo come cammino di rinnovamento della vita e conversione del cuore, Gesù risponde in modo così limpido che la rabbia degli avversari, in quel loro ritrarsi ammutolito, si accende ancora di più.  È netta la contrapposizione che si genera tra l'ostilità e la risposta amorevole del Signore. Da una parte sembra una debolezza l'amare Dio e il prossimo, ma in realtà, è il cuore e l'origine di una umanità pienamente rinnovata. Cosa vuol dire amare Dio se non rinunciare ad ogni pretesa nei suoi confronti? Non è forse la pretesa del: "Ma se Dio ...", che esprime la rabbia e il rancore umano verso l'onnipotenza del Creatore, e verso ogni espressione della sua rivelazione?
Cosa vuol dire amare il prossimo se non smettere di vedere nel fratello l'antagonista, il competitore della mia vita, della mia riuscita? Rabbia, gelosia, invidia, giudizio, preferenze ... Anche tutto questo anima il nostro rapporto con il prossimo? Unico rimedio alla nostra umanità ferita e in piena contraddizione è l'amore! Perché solo l'amore, la tenerezza e la compassione sciolgono ogni malefico effetto del peccato.

giovedì 19 marzo 2020

2 Sam 7,4-5.12-14.16 e Matteo 1,16.18-21.24
Solennità di San Giuseppe 
Sposo, padre, custode e protettore ...

"Canterò in eterno l’amore del Signore, di generazione in generazione farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà, perché ho detto: È un amore edificato per sempre; nel cielo rendi stabile la tua fedeltà", Salmo 88. Questo salmo risuona come canto alla paternità di Dio, ma è canto di gratitudine di ogni padre e del riconoscimento della paternità.
L'evangelista Matteo, pone all'inizio del suo Vangelo la genealogia di Gesù; è un dato forse non suffragato da certezza e verità storica, ma certamente ha un significato antropologico, oltre che teologico. Ciascuno di noi, superata la fase della contrapposizione con le figure parentali; integrata e portata a compimento la propria autonomia esistenziale, recupera anche quella figura paterna che spesso è stata oggetto di scontri e incomprensioni. Il Padre si colloca allora all'origine del senso della nostra storia personale. Non importa che sia perfetto, o che sia un eroe o un uomo di successo, importa che ci sia! Esso rappresenta la certezza della nostra esistenza a partire dall'amore di chi ci genera nella vita; nella figura del Padre, si svela il complesso dinamismo dell'origine. Anche per Matteo mettere al "principio" un riferimento così forte, ha senso per spiegare e mettere in relazione Gesù con la Paternità di Dio, e come espressione della fedeltà, che è per sempre, del suo amore. Chi si sente parte della paternità di Yhwh, si sente frutto di una scelta di fedeltà nell'amare, che si concretizza poco per volta nella vita.
Padre, sposo, custode, protettore ... sono ben altro che titoli liturgico-religiosi; essi tratteggiano la paternità di Dio, e da quella anche la paternità di Abramo, ... dei Patriarchi, ... di Davide, di Giuseppe ... ma anche la nostra paternità. Essere padre significa essere fedeli nell'amore, con una fedeltà che si manifesta nella tenerezza degli affetti, nella forza della guida, nella vulnerabilità delle personali fragilità, ma soprattutto nella fedeltà nell'amare coloro che sono generati figli. Santa è la paternità che ci fa custodire nel cuore il dolce/amaro ricordo di nostro Padre e ci fa gustare, ora, la bellezza di essere Padre nella carne, ma soprattutto nell'amare ... Bellezza che si concretizza e si rivela come amore di predilezione, pur senza essere un amore chiuso ed egocentrico.
Oggi nel ricordo di San Giuseppe, la preghiera e il ricordo ai papà, come anche a chi ci è "Padre" amandoci.

mercoledì 18 marzo 2020

Deuteronomio 4,1.5-9 e Matteo 5,17-19
L'amore va portato a pienezza!

Nell'immaginario collettivo cristiano, di fronte a tutta la tradizione religiosa di Israele, di fronte alla stessa Scrittura, svetta Gesù che a questo punto dice: "Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento", e tutto viene ridotto al contenuto legale, cioè agli obblighi e alle regole religiose. Da questa posizione - sempre nell'immaginario collettivo -, tutta la tradizione religiosa di Israele subisce una progressiva e drastica marginalizzazione, cioè, noi credenti in Gesù, perdiamo il legame con la tradizione religiosa e spirituale che ha originato umanamente anche il figlio di Dio fatto uomo. Non credo che questo percorso sua stato corretto. Ora, occorre recuperare ciò che precede, cioè il discorso della Montagna, "le Beatitudini". Queste parole di Gesù sul compimento, hanno senso a partire da quanto Gesù dice come riproposizione di tutta ma Scrittura, e non quindi riducendo tutto a delle Leggi, o a dei precetti degli Scribi e Farisei. Gesù per Legge e Profeti intende proprio la Parola di Dio rivelata ad Abramo, ai Patriarchi, a Mosè e ai Profeti di Israele. Gesù nelle Beatitudini rivela la Parola, e ce la fa comprendere nella sua più intima espressione della volontà del Padre: come la misericordia che è in azione nella vita dell'uomo, dei piccoli, dei poveri. Per Gesù la Legge - il vero cuore della Parola - è l'amore di Dio e l'amore del prossimo; chi ama compie tutta la legge. È quindi vero che Gesù compie la Legge e i Profeti, la compie nel senso più vero e definitivo. Gesù non si contrappone ma si propone come sintesi e compimento di una lunga storia di amore che abbraccia tutti gli uomini a partire dalla creazione di Adamo, per rivelarsi personalmente nelle promesse fatte ad Abramo. La Legge e i Profeti sono una storia di Amore, non un elenco di norme e precetti. Gesù si presenta quindi come maestro e messia, come colui che rivelando la pienezza della Legge che è l'amore, ci dona anche un cuore nuovo, affinché anche noi possiamo essere dentro il suo compimento. Trasgredire la Parola, rifiutarla, non viverla, fare finta di ascoltarla, manipolarla a proprio piacimento, è come rinnegare l'amore e colui che dell'amore è l'origine: il Padre.

martedì 17 marzo 2020

Daniele 3,25.34-43 e Matteo 18,21-35 
Dio ha già perdonato ... E tu ...

Pietro, dimostra di aver assimilato i precetti della Legge; egli si sente sicuro anche rispetto a ciò che Gesù sta dicendo ogni volta che si rivolge alla gente: "Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello".
Per Pietro quel "fino a sette volte" rappresenta ciò che la verità è la giustizia della legge richiede a qualsiasi pio israelita. Entriamo per un momento nella Legge di Israele. In Genesi 4, si legge - dopo l'uccisione di Abele per mano del fratello Caino - che Dio maledisse Caino (Gen 4,11-15), ma poi, mise anche un segno distintivo su Caino affinché nessuno lo uccidessero per vendicare la morte di Abele. Dio poi, decreta che chiunque avesse ucciso Caino, avrebbe subito vendetta sette volte. Poi a seguire la lettura, ai vv. 23-24 - citando Lamec - in un passo poetico, che incita la vendetta si dice: "Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette".
Pietro si sente quindi già molto misericordioso, perché egli sa bene che non è facile perdonare sette volte lo stesso peccato allo stesso offensore. Ma Gesù gli risponde con autorità: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”, cioè sempre, all’infinito, ben più di Lamec!  Senza se e senza ma, il discepolo di Gesù perdona senza calcolare il numero delle volte. La parabola infatti, pone due situazioni estreme in cui o si è misericordia come è misericordioso Dio, oppure non lo si è, e si ricerca la giustizia della legge. Di fronte alla narrazione della parabola restiamo stupefatti, forse anche esterrefatto, perché non è facile né comprendere né assumere questo atteggiamento. Ciò che Gesù chiede non è forse troppo? È possibile per l’essere umano perdonare sempre?
Però Gesù non chiede a Pietro se gli è possibile perdonare sempre, ma gli dice che per essere veramente un discepolo, deve perdonare sempre di cuore al proprio fratello.
Il perdono è la leva che muove tutto il Vangelo, è la forza del cristiano. È faticoso per Pietro il passaggio dalla legge al Vangelo, ma è la fatica che ha dovuto fare (ci ha provato), per seguire realmente Gesù in tutto. Solo una relazione custodita e radicata - con Gesù - porta al cambiamento della vita. 

lunedì 16 marzo 2020

2 Re 5,1-15 e Luca 4,24-30
Sul limite del precipizio ... La differenza ...

Un piccolo promontorio poco fuori l'odierna città di Nazareth, chiamato il monte del precipizio, vuole ricordaci questa pagina del Vangelo, nella quale Gesù inizia, drammaticamente, il suo ministero pubblico. Tra le righe della narrazione percepiamo infatti il consumarsi di uno "strappo": "Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino". Anche a Gesù, Dio Padre sembra chiedere un atto di vero affidamento, di autentica disponibilità a compiere la Sua volontà, fin da subito, senza nostalgie e sicurezze fondate sulla esperienza personale, sulla radicalità dei legami affettivi o semplicemente sulla propria storia.
Il ciglio del monte, il limite del precipizio, segna la profonda differenza tra la nostra autosufficienza e l'affidamento pieno. Ciò che Gesù sperimenta a Nazareth è solo l'inizio, di ciò che si compirà pienamente sulla croce, quando guardando i suoi crocifissori, Gesù dice: "Padre perdonali perché non sanno quello che fanno!" ... Quanto profonda è l'esperienza del distacco, del rifiuto dell'incomunicabilità ...
Tutto si compie a partire dall'affidarsi alla volontà di Dio, non per fatalismo o per rinuncia alla propria possibilità, ma come adesione alla salvezza, alla percezione di un amore grande, che Dio Padre buono compie e realizza anche attraverso la nostra libertà e il nostro affidarci a Lui. È l'affidarci che fa la differenza! Non è debolezza, non è rinuncia, non è paura ... Ma fidarci del poter essere tra le "braccia" di Dio. Rinunciare alle sicurezze per essere accolti nelle braccia di Dio: è come avere la certezza che sul limite del precipizio anche se si fa esperienza di paura e di morte, la consapevole promessa della presenza di Dio Padre, che ti prende fra le sue "braccia", fa la vera differenza.

domenica 15 marzo 2020

Es 17,3-7; Sal 94; Rm 5,1-2.5-8; Gv 4,5-42
Gesù e la donna Samaritana

La lettura che facciamo è a partire dai due soggetti Gesù e la donna Samaritana, dalla loro esperienza personale, dai loro corpi che entrano in dialogo; dalla relazione che attraverso la parola diviene apertura reciproca, accettazione e accoglienza. Gesù è seduto vicino a un pozzo, stanco e assetato. Cosa c’è di straordinario?
Questo Gesù è il figlio di Dio, passa per le strade dando la vista ai cechi, l’udito hai sordi, gambe agili agli zoppi, la salute ai lebbrosi, la vita ai morti … è una potenza! Come può uno così sedere stanco dopo un viaggio sotto il sole di mezzogiorno; come può essere stanco come me, come te, come tutti noi? Gesù ha un corpo come il mio!
Questa sua stanchezza ce lo fa sentire vicinissimo, compagno, amico …
Gesù sembrerebbe proprio nella condizione di chi aspettava la donna samaritana … la aspettava con tutta la sua “divina e umana fragilità" ... per accoglierla.
Sopraggiunge allora una donna la quale, forse a causa del suo comportamento immorale, pubblicamente riconosciuto, è costretta a uscire per strada a quell’ora, per non imbattersi in quanti la disprezzavano.
È comunque una donna che mostra tutta la sua fragilità, non più giovane, ma ancora in forze, aitante, spigliata con una punta di arroganza, sicura di sé, attrezzata di anfora e secchio per attingere l'acqua dal pozzo. Quante volte l’avevano trattata da “buona donna”, da senza Dio, da anima perduta. Lei si difendeva con forza, ma ci soffriva. “Cosa sanno questi di quello che sono dentro? Perché mi giudicano senza conoscermi? Chi glielo dice che io, dentro, non sia più pulita delle loro apparenze?”
Gesù le chiede: “Dammi da bere”. Ma questa domanda non è rivolta solo alla donna, a ciascuno viene chiesto di condividere la propria vita, la propria storia con Lui. Gesù ha sete della donna samaritana come di ciascuno di noi.

https://drive.google.com/drive/folders/12J3JSEnyMS4_IX0gLC8D74zLlLD5D-Dw

sabato 14 marzo 2020

Michea 7,14-15.18-20 e Luca 15,1-3.11-32
Essere il padre, di figli ribelli e arrabbiati

Ogni volta che leggiamo la parabola del Figlio prodigo, ovvero del Padre misericordioso, immediatamente corriamo alla nostra prima confessione e comunque al sacramento della riconciliazione. Proviamo di disinserire questo ingenuo automatismo. La parabola parte dall'esperienza quotidiana e dal vissuto, per provocare e per annunciare una verità che porti alla conversione, cioè provochi un cambiamento in ordine al Vangelo annunciato e ascoltato.
Il cuore della parabola è: "bisogna far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato".
Ciò che emerge, distintamente, è questo Padre che in tutta questa sua vicenda famigliare, come suo punto fermo sembra avere proprio solo: "Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato".
Viene così ribaltata la nostra immagine di Dio. Dal Dio paternalista si arriva al Dio Padre; dal Dio giudice siamo affidati al Dio misericordioso; dal Dio giusto siamo accostati al Dio che ha compassione ... Cioè il Dio di Gesù è tutta un'altra "cosa" rispetto a ciò che immaginavano gli ebrei, ma spesso anche rispetto a ciò che immaginiamo noi. Questa parabola vuole togliere le storture della mente e del cuore, vuole renderci l'immagine attenta, severa e buona di un Dio amorevole e gratuito, non buonista ma semplicemente buono, che fa della bontà il criterio della sua stessa volontà: "non saremo forse invidiosi o gelosi del fatto che lui è buono?" È questo Padre che si trova coinvolto nelle vicende opposte e contrastanti dei propri figli, gli uni ribelli e in cerca di una orgogliosa autonomia e autosufficienza; l'altro vittima di se stesso, dei propri pregiudizi e ingabbiato nelle proprie convinzioni, che sono spesso e facilmente solo sue. Ma è proprio questo il messaggio, nonostante noi, e di come siamo fatti, Dio Padre, è altro rispetto alle nostre auto convinzioni, come è Dio Padre c'è lo racconta il suo figlio unigenito, Gesù.

venerdì 13 marzo 2020

Genesi 37,3-28 e Matteo 21,33-43.45
Come i fratelli di Giuseppe diventano vignaioli

Le letture di oggi si intrecciano e si illuminano a vicenda creando una profonda risonanza esistenziale. Ci presentano il dramma della gelosia di fronte alla predilezione del Padre per il figlio amato; un complesso relazionale-affettivo umanamente inconcepibile per noi oggi, ma segno straordinario di una benevolenza che è misericordia infinita di Dio Padre per l'umanità: "Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!"
È nel dono del figlio, che Dio Padre - già nell'immagine di Giacobbe che invia Giuseppe ai suoi fratelli: "... Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Vieni, ti voglio mandare da loro ..." - porta a compimento il suo desiderio/volontà di salvezza attraverso la redenzione del peccato (uccisione non realizzata di Giuseppe e l'uccisione del proprio Figlio mandato nella vigna), che si compie nel segno del sacrificio del "proprio figlio, l'erede".
La volontà di Dio Padre è che la vigna che ha piantato; che tutte le cure che l'hanno accompagnata; nulla vada perduto! Non dobbiamo limitarci a una lettura storica e a un parallelismo di immagini. Non siamo rimasti fermi alla morte di Gesù in croce come uccisione sacrilega del Figlio amato. Paradossalmente al "frutto" che i fratelli di Giuseppe si  spartiscono nel silenzio criminale di un sopruso cioè la vendita del fratello - per noi oggi - diventa il frutto della vigna di Dio cioè l'abbondanza che si sperimenta nella vita stessa della Chiesa, di quella Chiesa madre, che per la forza del Vangelo genera alla vita eterna i suoi figli, anche se erano vignaioli infedeli. I frutti ora sono straordinari, perché conseguenti all'offera della vita di Gesù; quindi la Santa Chiesa che offre a Dio l'umano quotidiano nel sacrificio di Figlio - non si spartisce il prezzo del peccato - sempre si ammanta di essere "gli altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo". In questo tempo dei "nuovi frutti", i frutti della grazia, i trenta denari offerti a Giuda Iscariota, prezzo di vendita di Giuseppe, non gravano più su nessuno, Gesù vivo ha ricattato tutto! Permane a questo punto solamente l'immagine di Dio, di un Padre che possiede una vigna della quale si prende amorevolmente cura.

giovedì 12 marzo 2020

Geremia 17,5-10 e Luca 16,19-31
La realtà rispecchia il cuore

Non è forse la Parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro, immagine del nostro mondo? Non è il nostro mondo pieno di fratelli e sorelle indifferenti e sordi rispetto ai molti Lazzaro che stanno alla porta o sotto la tavola, leccati dai cani? L'immagine della Parabola non vuole raccontare una verità attraverso una finzione o un fatto di un tempo passato, ma chiamarci a conversione rispetto i nostri egoismi, piccoli e grandi, capaci però di chiudere noi stessi in vesti di porpora e lino finissimo, come anche di riempirci a lauti banchetti compensativi. Il fine della parole di Gesù è semplice e chiaro: mettere attenzione a quanto ammonta il nostro egoismo, il nostro essere al centro di noi stessi e al centro del mondo; spesso in uno stato di assoluta avidità, cioè preoccupati di auto-costudirci, auto-conservarci, auto-stimarci; incapaci di conversione. Il dramma del ricco è che cercando alla fine ogni giustificazione, non converte il suo cuore. Chi vive privato dell'esperienza della misericordia, si condanna nell'incapacità di vivere l'amore come gratuitità. È quell'esperienza di amore l'unica condizione necessaria per generare un rapporto vitale che si rende evidente nella vita eterna. L'amore gratuito verso i fratelli rimanda immediatamente all'amore del Padre, riconosciuto, vissuto e ricambiato. Se mi chiudo all'amore, all'esperienza della gratuità sarò solo e tutto egoismo, ma sarò anche nella triste evidenza di chi non ha Padre, di chi rinnegando nell'indifferenza i fratelli, rinnega nella stessa indifferenza il Padre, 
L'esperienza del ricco diviene progressivamente esclusione e possesso. Esclusionedalla comunione: ogni ricco vive in un dorato isolamento esistenziale, perché le relazioni difficilmente sono gratuite e vere, esse vengono sempre filtrate - volenti o meno - dalla  ricchezza. Possesso delle cose, il ricco, privo del senso del donare, come esperienza di uscire da se stessi per offrirsi all'altro, dimostra il difficile è malato rapporto con le cose del mondo: esse non sono mie, ma nostre ... esse sono i doni che il Padre fa ai fratelli, e io ne sono solo amministratore, esse sono per i fratelli, non per me solo, in questo caso le "cose" sono egoismo. La realtà che viviamo, non è colpa di sé stessa, ma è conseguenza del nostro cuore, aperto o chiuso all'amore gratuito.

mercoledì 11 marzo 2020

Geremia 18,18-20 e Matteo 20,17-28
Il terzo giorno, risorgerà ...

Siamo ancora nel primo giorno. Il giorno faticoso della flagellazione, della crocifissione, della derisione ... Giorno di dolore in cui, anche la preghiera diviene un grido disperato e mezzo tra rabbia e abbandono ... "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato" (Sal 22). È in questa situazione paradossale, che le parole di Gesù sulla grandezza degli uomini della terra e sul servire, assumono uno strano significato, e si impongono per dare nuova luce e comprensione della realtà. Infatti, esse, ci insegnano come il Servizio, cioè il Regnare sono possibili solo a partire dalla croce. Vivere con fedeltà l'attuale esperienza quotidiana della vita, per amore dei fratelli, con responsabilità e consapevolezza, è il modo per generare germi di salvezza,  per sconfigge ogni "virus", da quello della ipocrisia a quello della menzogna. È quel Servire che rinnova tutto, e vince il maligno, ... "Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti".
Di fronte alle menzogne, e alle insinuazioni di alcuni credenti, anche nella fatica di questo tempo di prova, non sono certo gli attacchi ad oltranza verso colui che "serve in nome di Cristo" a generare comunione e nemmeno sobillare in nome di una pretesa "Messa cancellata". Questo tempo è il primo giorno, della salita sul monte della croce (Golgota), è il giorno dei paradossi assurdi; è il tempo dell'ipocrisia di Scribi e Farisei; della menzogna del seduttore. Sarà il giorno in cui sperimenteremo, nella nostra carne e anche nella fede, la Passione di Cristo per l'umanità. Anche questo ci aiuterà a fare parte con i patimenti di tutti gli uomini e donne della terra. Attendiamo con pazienza e speranza il secondo giorno, il Sabato Santo, il tempo della preghiera sottovoce e del silenzio di Dio - il vero deserto spirituale -. Già a questo giorno la Chiesa, si prepara accompagnando, con responsabilità e prudenza l'intera umanità; da sempre nel "sepolcro" del mondo, continua ad elevare il Sacrificio del Figlio di Dio che da allora, perennemente, si dona per la salvezza dell'uomo. In questo tempo il rischio è di pretendere di capire, o di chiedere per dare soddisfazione alle nostre domande che a volte sono pretese. Ma ci viene proposto di vivere il "Servire" cioè mettersi a disposizione, per mostrare come ogni discepolo di Gesù, costantemente sale a Gerusalemme, per vivere la passione del il primo giorno, per digiunare e ugualmente celebrare con la Chiesa i Sacri Misteri nel secondo giorno, in attesa della luce della risurrezione, il terzo giorno.

martedì 10 marzo 2020

Isaia 1,10.16-20 e Matteo 23,1-12
L'antidoto al virus della ipocrisia

Il male irriducibile delle persone religiose, che viene duplicato di generazione in generazione, è l'ipocrisia. Tutti noi, come allora, siamo pronti a denunciare l'ipocrisia dei fratelli, cioè dell'altro, ma in realtà una certa forma di ipocrisia si annida in ciascuno di noi. È questo virus che ci tormenta da dentro per cui anche per il minimo bene che siamo capaci di fare, non siamo indifferenti al riconoscimento e alla gratificazione. Ma già questo mette in evidenza come quel bene è stato intaccato dal male della mia vanagloria e della mia autostima esuberante. Al tempo di Gesù, scribi e farisei, persone che erano considerati la "crem" del popolo di Israele, vengono da Gesù scoperti nella loro ipocrisia per la quale "Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare (...), le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente (...), si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti (...), essere chiamati “rabbì” dalla gente". Non sono cattive persone, sono solo pieni di sé e del loro ruolo; questo genera una profonda ipocrisia, che si manifesta tra ciò che esprimono in quanto scribi e farisei e ciò che vivono realmente. Spesso si riferisce questa ipocrisia agli uomini di Chiesa: preti, frati, suore ... Ma in realtà questo virus colpisce ogni uomo, lo colpisce in modo più o meno evidente, ma è una pandemia che contraddice la nostra capacità di vivere il gratuito e di essere umili. 
Il Vangelo ci propone l'unico antivirale possibile: "Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo". L'antivirale alla ipocrisia è il servizio. Servire significa per il Vangelo, rinunciare alla presunzione essere maestri, padri e guide, ma in forza dello Spirito di Dio custodire e vivere nella relazione coll'unico maestro; riconoscersi figli di un unico Padre e seguire come guida Cristo (parola di vita e verità). La grandezza allora sarà la nostra apertura e disponibilità all'azione dello Spirito che rende "nuovo" il nostro agire, e se è nuovo, non ha bisogno del riconoscimento del mondo, perché è già un agire dell'altro mondo!

lunedì 9 marzo 2020

Daniele 9,4-10 e Luca 6,36-38
L'amore che si genera nella penitenza.

La preghiera di Colletta di oggi - di inizio della S. Messa - recita così: "O Dio, che hai ordinato la penitenza del corpo come medicina dell’anima, fa’ che ci asteniamo da ogni peccato per avere la forza di osservare i comandamenti del tuo amore".
Suggerisce una particolare chiave di lettura per la attuazione del Vangelo del giorno.
A cosa serve la le utenza? A cosa serve mortificare il nostro corpo, con sacrifici, preghiere, digiuni, ed elemosine?
Forse, la prima cosa da fare è chiarire cosa intendiamo per penitenza. Il contenuto infatti si è evoluto fino a diventare per noi un sacramento per la remissione dei peccati. 
La penitenza originariamente la possiamo definire un atto, la scelta di privazione; una non facile rinuncia (mortificazione); che una persona compie, o impone a se stesso, come segno visibile del dolore del proprio peccato, o male commesso. Tale gesto oltre a essere un autodenuncia, richiede agli "altri/altro" il perdono delle colpe commesse. Con la penitenza la nostra umanità viene profondamente coinvolta, essa si offre al giudizio degli altri, e chiede il loro aiuto, la loro fraterna misericordia. In questa colletta diciamo che la penitenza è curativa rispetto ai limiti e fragilità che portiamo nelle relazioni e nella comunità. Ed è questa penitenza che, togliendoci dalla tentazione del peccato, ci introduce nei sentimenti misericordiosi di Dio.
Essere misericordiosi come il Padre, Gesù stesso lo ripete, ma non perché non ha più cose nuove da dire, ma perché tutt'a la novità, per noi, è proprio questa, fare nostri i sentimenti del Padre. La penitenza serve a questo, non è una mortificazione per sé stessa, che a nulla servirebbe. Lo scopo della mortificazione è la trasfigurazione del cuore: pesare i nostri pensieri, i nostri sentimenti, saperli comprendere e discernere, perché attraverso la nostra misura impariamo la misura di Dio Padre che è misericordia, e così poter misurare anche nella misericordia i fratelli. Ecco che la penitenza attinge al concetto di amore gratuito, ama non per opportunismo, ma per vero desiderio di amare.
Detto questo, credo che ore amare di cuore, e non di testa o con le parole, occorre fare un po di penitenza. La penitenza mostra/dimostra l'amore.

domenica 8 marzo 2020

Gen 12,1-4; Sal 32; 2 Tm 1,8-10; Mt 17,1-9
Travestiti o ... Trasfigurati!

"È bello per noi essere qui?" Con queste parole di Pietro iniziamo questa riflessione sulla Trasfigurazione del Signore.
Nessuno di noi cerca ciò che è brutto, o si sofferma nella tristezza, come anche nessuno si augura la desolazione e la fatica. Tutti ci sentiamo attratti e partecipi del "bello".
Ma cosa c'era di così bello sul monte - forse il Tabor - dove il Signore si è trasfigurato?
Il racconto della trasfigurazione, non è una favola e nemmeno un aneddoto pedagogico di natura catechetica, ma è una esperienza vera: Gesù ha condiviso con Pietro, GIacomo e Giovanni non solo la sua Glorificazione ma li ha volutamente introdotti, attraverso la loro umanità nella Gloria (Kabod ebraica, presenza; doxsa greca, splendore) ma non solo, Gesù li rende partecipi della Gloria, nell'esperienza della vicinanza e dell'intimità con Dio. Le parole di Pietro suggeriscono una partecipazione attiva, quasi l'essere riuscito anche solo minimamente a percepire e ad abitare la Gloria.
Pietro , Giacomo e Giovanni, ci danno la certezza che la Gloria è iscritta come possibilità nell'umano; quando la nostra umanità si accompagna al mistero di Dio, e si lascia coinvolgere dal mistero/presenza/parola di Dio ... Tutto questo è Gloria!
Allora la Gloria della Trasfigurazione è la presenza di Dio in noi; è il suo esserci accanto nel nostro vissuto che ci trasfigura e ci rende luminosi e radiosi; non sono le nostre buone azioni, o la nostra moralità ... Quelle sono conseguenze della  "Kabod", cioè effetti secondari dell'esperienza gloriosa di Dio Padre in noi.
La Gloria non si riduce a una esperienza di estasi, ma parte dall'esperienza della nostra fede, si sviluppa dall'ascolto della Parola e dalla obbedienza che Dio trasforma in benedizione ...
Tutto questo non implica una perfezione umana, anzi, la Gloria rivela tutte le nostre ferite, e tante nostre fragilità e inadeguatezze ... Ma Dio ci ama, ci ha scelto e nonostante tutto ci accompagna, non si sottrae. Nessuno di noi è un eroe della fede, ma è proprio questa nostra umanità, ricca di fede e di contraddizioni, ricca di amore e di peccato, densa di passione e di compromessi, che fa di ciascuno un vero uomo in cammino, e in ricerca del Dio vero, del Dio altissimo, di cui si è, anche solo parzialmente o in una occasione innamorato perdutamente. Ma già tutto questo è trasfigurazione, è trasfigurante!
Da questa esperienza sul monte Pietro, Giacomo e Giovanni, hanno tratto molto, per ripensare a sé stessi ..., alle loro aspettative e scelte ..., al perché stare con quel Gesù ... e cosa ne sarebbe venuto di buono a loro ...
Percepirsi inadeguati, gli ha permesso di avere occhi e sguardi per rileggere il proprio cuore e il proprio animo. Magari hanno scoperto che il più delle volte essi stessi non sono mai riusciti a trasfigurare la loro umanità, ma si sono limitati semplicemente a Travestirla di una luce riflessa del Cristo Glorioso.
A leggere a fondo la loro storia, Sono rimasti sorpresi di come Travestimento e Trasfigurazioni si sono a volte alternate a riempire il loro vissuto. Senza scandalo di nessuno, questo è vero per loro come anche per noi oggi.
Se guardiamo bene, troveremo degli aspetti, degli ambiti, in cui la nostra fede traballa (momenti del travestimento) o si riempie di dubbi, come altri in cui sentiamo vicini a Gesù (momenti di trasfigurazione).
(...) La percezione di questa distanza è importante per riconoscere le giustificazioni ai miei travestimenti e la presunzione di una glorificazione che potrebbe essere solo esteriore è non vera partecipazione al mistero.

sabato 7 marzo 2020

Deuteronomio 26,16-19 e Matteo 5,43-48
Quando il superamento del limite?

Amare i propri nemici sarebbe la vera vittoria! Ma questa condizione, ammettiamolo, non è in forza della nostra inclinazione o dei nostri buoni sentimenti. Per quanto possa sforzarmi di amare qualcuno - che per me è un nemico - è una fatica insuperabile. Pur riconoscendo l'originalità del Vangelo e la forza etica e morale che rappresenta, adeguare la volontà e il cuore a una obbedienza che non sia solo formale, ma sia di tutta la persona, è cosa umanamente, quasi, "infattibile".
Come è possibile che Gesù ponga questo comandamento-proposta come motore del rinnovamento del cuore e fondamento della nostra conversione?
Forse noi restiamo sempre dei convertiti con riserva ... rimandando all'ultimo giorno la risoluzione di tutte le fatiche e fragilità che caratterizzano la nostra esperienza umana.
Questo rimandare è prova del nostro restare "imperfetti"?
Ciò significa che la nostra appartenenza a Cristo, se pur motivata nella fede, è pur sempre una risposta umana che chiede di essere maturata e perfezionata, giorno per giorno e in un continuo agire, circa consistenza e inconsistenza umana, ed esperienza di vita.
Cosa è la consistenza: è l'ideale che Gesù ci insegna e ci pone come obiettivo della vita: "Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste". 
Cosa è l'inconsistenza: è il nostro limite: "... Non fanno così anche i pubblicani? (...) Non fanno così anche i pagani?"
Tutto si gioca tra queste due polarità, ma non da solo. Questo dinamismo, infatti, ha senso solo nella relazione di fede in Cristo. Senza Gesù questa tensione esistenziale non esisterebbe. Ma è da "Oggi che il Signore, tuo Dio, ti comanda di mettere in pratica queste leggi e queste norme. Osservale e mettile in pratica con tutto il cuore e con tutta l’anima."
La perfezione è allora una esperienza di conversione, ma la conversione, oltre all'idea del cambiamento, contiene pure il contenuto di una perseveranza nell'amare, per essere una condizione declinata e continuamente richiamata dalla parola di Gesù, per essere forza di rinnovamento nella quotidianità del nostro vivere. La conversione non  è mai chiudersi alla ripetitività della proposta di Gesù, ma perseverare nell'ascoltare ... Così anche il cuore più indurito si sgretolerà!

giovedì 5 marzo 2020

Ester 4,17k-u e Matteo 7,7-12
Impariamo a pregare come mai abbiamo imparato

Certe immagini, in alcuni, fanno ancora parte del patrimonio dell'esperienza: la propria nonna con il rosario in mano che recitava sussurrando le "Ave Maria". Al punto che il "recitare" rimane anche ora nella consuetudine religiosa il modo per "dire": Pregare ...
Ma è corretto? Corrisponde realmente al senso del pregare il recitare delle parole, delle formule? Vorrei introdurre il termine relazione spirituale tra Dio e l'uomo e viceversa, per parlare di preghiera. Relazione spirituale! Partirei proprio da questo aspetto, la preghiera è un dinamismo che si genera tra lo Spirito di Dio e quello dell'uomo. Lo spirito dell'uomo esprime desideri, sentimenti, esperienze, fatiche, fragilità. Lo Spirito è l'esistenza dell'uomo nel superamento della sua materialità; lo Spirito dell'uomo ha origine in quell'alito di Vita che il creatore soffia in Adamo,  e in quel momento diviene un essere vivente. È questa nostra identità Spirituale che è capace di accostarsi e interagire con il mistero che è lo Spirito di Dio.  La preghiera non sarà mai vera relazione Spirituale se è conosciuta e praticata come consolazione, e rassicurazione nelle fatiche e nelle crisi della vita (questa esperienza è parziale, immatura). La preghiera per Gesù invece è partecipazione a questo dinamismo spirituale, con tutto il suo esistere, fino anche a "sudare sangue" nell'agonia dell'orto.
La preghiera è universo di possibilità, ma non per ottenere delle cose o delle soluzioni. È la possibilità che si apre allo Spirito di Dio di essere parte viva della nostra stessa vita. Di fronte a una sciagura - come anche quella che stiamo vivendo - pregare è dare allo Spirito di Dio di esserci attraverso il nostro esserci, attraverso le nostre paure, le nostre inadeguatezze, le nostre vittorie. Per l'essere umano la preghiera è la possibilità per lo Spirito divino di colmare la solitudine esistenziale, e di essere con, e in noi stessi.  
Lo spirito di Dio percorre e interagisce la realtà dell'uomo con la medesima solidarietà e comunione che esprime la tenerezza di un Padre verso i figli: "Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono!"
Il chiedere, qui, non è ottenere, ma il chiedere è prima di tutto "possibilità" offera e ricevuta: siamo quindi nella relazione spirituale di possibilità.

mercoledì 4 marzo 2020

Giona 3,1-10 e Luca 11,29-32
La nostra vita e il mistero che è Dio

Si, Dio è mistero, nonostante qualsiasi tentativo di conoscerlo, indipendentemente dalla teologia, dalla ragione e dalla spiritualità ... Dio resta sempre mistero, ovvero, si rivela e si fa conoscere ma resta in tutto velato. Anche la piena rivelazione cristiana, in Gesù, non annulla la dimensione del mistero che la "Gloria" continua a possedere. Questo è ciò che permette all'uomo l'esperienza della libertà, in ragione della esistenza come uomo, e a Dio la sua manifestazione come volontà e possibilità che non schiaccia ma assume la libertà dell'uomo. Dio non si sostituisce, Dio non si sottomette, Dio non prevarica, ma nel suo esserci si manifesta nel nostro esserci; la sua libertà si rivela nella relazione con la nostra libertà, così pure la sua volontà non si oppone alla mia personale volontà, ma nella relazione di fede, tutto è integrato. Questa strana riflessione o a cosa serve?
Serve ad accompagnare e a tenere insieme l'esperienza di Giona profeta, in una città, Ninive, segnata dal peccato e dalla indifferenza verso Dio, nella quale il grido di Giona richiama a conversione, e trova eco e accoglienza (immagine della predicazione profetica dell'Antico Testamento); unitamente alla esperienza di Gesù, che sperimenta il rifiuto e la chiusura, da parte della sua gente che non accoglie, e non si lascia scalfire il cuore, cioè non si converte: "Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno ..."
Non credo dobbiamo scandalizzarci di fronte alla mancata conversione, specialmente se pensiamo alla conversione come un ritorno di massa a Dio, immagine di una realtà e società teocratica. Con Gesù, e in Gesù, Dio Padre rivela il senso del segno di Giona. Giona non è un segno di potenza, ma di contraddizione. Giona è segno quando, accompagnato da Dio, fa della volontà di Dio la sua volontà. Gesù è segno efficace, perché il rifiuto e la durezza di cuore non impedisce a Dio di entrare in quella storia e di esserne il segno che contraddice la stessa durezza del cuore degli uomini: "Dio è amore e la sua tenerezza di Padre è rivelata nel segno che è Gesù, indipendentemente dalla evidenza e potenza del Segno". La rilevanza del Segno si sperimenta nel cuore e nella fede, non più nel timore di una predicazione che potrebbe avere il sapore di una propaganda. Gesù sarà Segno per me, quando sarò disposto ad accoglierlo come crocifisso, umiliato, ferito è morto ... Eppure quel segno inerme è ciò che vince il mio male e la mia morte. Ma un segno così mi soddisfa? Può un segno cosi fatto trovare accoglienza nella mia vita? Può un segno cosi rivelarmi il mistero di Dio che mi accompagna?

martedì 3 marzo 2020

Isaia 55,10-11 e Matteo 6,7-15
Quando pregate dite ...

Vi è mai capitata l'esperienza di progettare, far pensare, di desiderare ... e accade qualcosa di inatteso, che impone situazioni o soluzioni completamente diverse? O che ci riportano a una situazione di neutralità o comunque di vera consapevolezza?
Credo che queste esperienze rappresentino ben di più della inevitabile eccezionalità degli eventi, ma il modo originale e vero, in cui Dio agisce sempre, e nella sua libertà: "così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero". La sua Parola, non è un discorso come il nostro, ma è la sua stessa presenza, manifestazione/rivelazione, persona, Cristo ...
Diciamo sempre che dobbiamo Ascoltare, che dobbiamo pregare, parlare, stare in relazione con Dio ... Ma non è forse anche Dio in ascolto del nostro cuore, dei nostri desideri, della nostra vita ... Non è forse anche Dio in cerca della relazione con noi ... Non è forse anche Dio supplicante e in preghiera davanti ad ogni uomo che ama come figlio?
Ecco che nel Vangelo di oggi, le parole di Gesù, non sono proprio una preghiera insegnata ad arte, ma la piena adesione alla volontà del Padre, perché egli, "il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate".
Cosi la Preghiera diviene una vera esperienza di fede, nella quale lascio condurre la mia libertà dalla libertà di Dio; i miei desideri dai sentimenti di Cristo; il mio amare dall'amore che è lo Spirito. Non devo inventare nulla ma tutto accogliere e nello stesso tempo lasciarmi accogliere da Dio, "Padre nostro, che sei nei cieli ..."

lunedì 2 marzo 2020

L'evitico 19,1-2.11-18 e Matteo 25,31-46
Non siate ingiusti, ma santi come me

Non rubare, non ingannare, non mentire; non giurare il falso; non opprimere, non spogliare, non trattenere il salario; non maledire, non prenderti gioco del fragile, non maledire Dio; non essere ingiusto, non essere parziale, non fare preferenze, non spargere calunnie, non uccidere; non odiare, non vendicarti, non avere rancore.
Di tutto questo scenario, della prima lettura (Levitico 19), il nostro cuore è capace! La nostra umanità sperimenta la sua più grande fragilità nella inclinazione al male, frutto di solitudine, di orgoglio, e presunzione di assolutismo. Il peccato di origine, tocca profondamente la nostra persona, a partire dalle nostre inclinazioni, e non per forza a causa di una scelta concreta e oggettiva. Vorrei proprio parlare di inclinazione a non corrispondere alla Santità di Dio e all'amore per il prossimo. Di fronte alla rilevanza del male che a partire da noi stessi possiamo anche solo "pensare", la Chiesa, portatrice del Vangelo della misericordia e dell'amore, cioè della vicinanza di Dio, rinnova ogni anno il l'invito a farci compartecipi della nostra conversione. Quanto Papa Francresco propone nel messaggio Quaresimale, il discernimento della vita, non è per un semplice incoraggiamento alla moralità, ma per un rinnovamento radicale a partire dalle nostre inclinazioni più profonde. "Il fatto che il Signore ci offra ancora una volta un tempo favorevole alla nostra conversione non dobbiamo darlo per scontato. (...) Malgrado la presenza, talvolta anche drammatica, del male nella nostra vita, come in quella della Chiesa e del mondo, questo spazio offerto al cambiamento di rotta esprime la tenace volontà di Dio di non interrompere il dialogo di salvezza con noi."
Oggi occorre separare le pecore dalle capre (il bene dal male), e questo a partire da me stesso, dal mio cuore, e in questo discernimento personale, riscoprire il gusto di essere ricondotto dalla parola del Vangelo all'origine, al Dio Santo, all'abbraccio fraterno con il mio prossimo: "... tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me".