mercoledì 30 settembre 2020

Il limite della nostra condizione

Giobbe 9,1-16 e Luca 9,57-62

San Girolamo (di cui oggi facciamo memoria a 1600 anni dalla morte) nel prologo al libro di Giobbe scrive che interpretare questo libro "è come tentare di tenere tra le mani un'anguilla o una piccola murena: più la stringi forte, più presto essa sfugge". Siamo di fronte al dramma dell'uomo che non comprenderà mai fino in fondo il perché della morte, del dolore della sofferenza. Nel capitolo 9, che abbiamo iniziato oggi, Giobbe dimostra ancora di affidarsi pienamente a Dio, un Dio che rovescia tutti i tradizionali sistemi di potere e tutti i criteri consueti; la signoria sul mondo, su ogni creatura, su ogni fenomeno naturale, su tutto ciò che lo rendono l'”Onnipotente”. Di fronte a questa certezza cresce di pari passo, in Giobbe, una lamentazione, uno sfogo di dolore e delusione: perché continuare a chiedere ragione, perché questo Dio mi assilla, mi scruta, mi getta nella povere, pur sapendo che sono innocente. Ed ecco che a seguire una domanda si apre nella mente di Giobbe: "Eppure Dio mi ha creato per amore! O … è per altro motivo che mi ha fatto vedere la luce?" "Perché mi mette alla prova “gratis”, senza una ragione che io possa comprendere? Certo, Dio non mi “deve” una risposta! Allora io continuo a dire: perché mi hai fatto nascere? Giobbe di fronte alla realtà si dimostra un sapiente biblico, cioè vive di quella sapienza è frutto dell'esperienza e non della conoscenza. Sarà quindi nell'esperienza concreta della sua vita che Giobbe incontra Dio stesso.

martedì 29 settembre 2020

Angeli del Signore Benedite il Signore!

 Daniele 7, 9-10.14-14 (oppure Apocalisse 12,7-12) e Giovanni 1,47-51


Una Festa della chiesa per degli angeli, anzi arcangeli! Ma di cosa stiamo parlando! La reazione più semplice dovrebbe essere quella dello scetticista razionalista, che se a fatica tollera il riferimento a Dio come creatore di tutto, figuriamoci l'idea delle schiere angeliche ...
Ai molti diffidenti tutto questo ha il sapore  di interferenza con le mitologie assiro-babilonesi, a la contaminazione culturale che inevitabilmente è avvenuta tra le popolazioni mesopotamiche, lasciando tracce nelle tradizioni orali e non più antiche. 
Eppure con una ingenuità innocente, i vangeli ci ripropongono queste figure angeliche come inserzioni del mistero nella realtà profana e laica dell'uomo.
Io non mi chiedo se esistono realmente, non mi chiedo cosa rappresentano rispetto al testo e alla narrazione biblica, ma parto dalla constatazione di esistenza, che ci trasmette fino ad oggi la memoria dell'interazione con la storia di salvezza. Non si tratta di una interferenza, più o meno voluta, ma sia l'uomo, sia gli angeli, sono protagonisti della storia di salvezza che ha spazi ben più ampi dello spazio-tempo dell'uomo. Certe immagini si dilatano oltre il tempo e chiamano in causa visioni di eternità e di gloria, cioè di piena visibilità e rivelazione del mistero di Dio. Certamente una domanda resta senza risposta, ma funge da richiamo di attenzione: "Perché anche Gesù ne fa così menzione?" "Solo per retaggio culturale?"
"Perché la Chiesa fin dalle sue origini, ne ha fatto un baluardo contro le forze del male?" "Solo per paura e senso d'impotenza?"
La Chiesa da sempre si affida alla protezione di San Michele, al quale chiede di venire in aiuto agli uomini riscattati dal peccato e dalla morte. Chiede con fede all'Aarcangelo di lottare contro il male che tiene schiavi gli uomini e danneggia la Chiesa. Oggi una preghiera per intercessione degli Arcangeli, per tutta la Chiesa, non è fuori luogo, forse le antiche immagine mesopotamiche sono veramente lo specchio di una lotta antica, ma attuale, che ha in satana l'origine di ogni male.

lunedì 28 settembre 2020

Benedire nella prova

 Giobbe 1,6-22 e Luca 9,46-50


Se oggi all'improvviso il nostro conto corrente venisse hackerizzato e svuotato; se perdessimo il lavoro; se la nostra casa crollasse; se le persone che amiamo ci abbandonassero, se ... Se tutto attorno a noi perdesse di significato e la realtà invece di accompagnarci nella vita si rivelasse matrigna e piena di fatiche e avversità, come reagiremmo? Saremmo capaci delle parole Giobbe?
«Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!».
Il commento del redattore del libro di Giobbe è: "... in tutto questo questo Giobbe non peccò e non diede nessuna colpa a Dio ..."
Come è possibile tutto ciò? Credo che Giobbe rappresenti il prototipo dell'uomo che cerca Dio, e che non si stanca di Dio. Dell'uomo che, in tempi di prosperità, serenità e pace, riesce a considerare la propria condizione in relazione al creatore. È in quella lucidità - se le cose di cui si gratifica non diventano idolo della vita - che il mistero di Dio resta come orizzonte di attesa e di speranza delle realtà che non passano. È con questa consapevolezza che Giobbe può pensare e anche affrontare la fragilità e la crisi. La sua solidità ha le sue radici nella benedizione di Dio, nella quale Giobbe non ha smesso di considerare Dio fonte di ogni suo bene e compagno di cammino. 
Giobbe ci dice come "non ridurre Dio a nostra misura", nelle bene e nel male; se Dio non è la misura ma siamo noi stessi a misurare ogni cosa, ogni realtà perde la propria trascendenza, e risulta solamente "finita". È facile cadere nello scoraggiamento della prova, nella tentazione della solitudine e dell'abbandono ... Ma quel voto che si allarga come abisso è proprio lo spazio del mistero che per qualche motivo non entra in me.

domenica 27 settembre 2020

SI e i NO ... i figli e le prostitute

 

Ez 18,25-28 / Sal 24 / Fil 2,1-11 / Mt 21,28-32


Se volessimo sintetizzare ciò che la Parola di Dio ci dice oggi, lo potremo fare in questa frase: "...i SI e i NO ... i figli e le prostitute".

La parabola è tratta dalla vita familiare; che riflette tanti nostri comportamenti, come i nostri si è i nostri no; non sono solo la scusa del nostro disappunto o della soddisfazione, ma come disponibilità o meno, nella vita di un discepolo, costruiscono o contraddicono la nostra esperienza di fede e il nostro stare nella sequela di Gesù.

A noi alla fine è rivolta la domanda: "Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?"

"Noi in chi ci riconosciamo?

Forse dobbiamo ammettere in partenza la distanza che è in noi tra il dire il Vangelo e il praticarlo. Una distanza che diventa misura mai esaurita dei perdoni del Padre, per originare tutti i possibili  ricominciamenti che giorno dopo giorno permettono anche il nostro prenderci cura con passione della vigna del Signore, della realtà in cui viviamo, della Chiesa. Un lavoro a cui tutti sono chiamati, ciascuno a suo modo.

Tra questi figli spiccano i Farisei, una categoria ormai documentata, capaci di dire SI a Dio, nella formalità religiosa, e poi vivevano mascherando la propria ipocrisia... Quanti cristiani anche oggi, danno forma a questo stile di vita. Al punto di svuotare di bellezza e verità la proposta di fede e lo stile di vita di Gesù. Mi diceva un insegnante di religione che nelle sue terze medie ha fatto un test nel quale ha dato 13 bisogni esistenziali da ordinare, ebbene, il 96 % dei ragazzi ha messo il bisogno di credere in Dio al tredicesimo posto.

Ma il vero snodo della parabola è quel "amen, amen ...", prostitute e peccatori vi passano davanti ... Si, ci passano davanti ma in un modo pesante, non è un sorpasso, ma un soppiantare, un sostituire, perché il loro No, diventa il Si di chi vive realmente la propria conversione. Una conversione frutto di un lavoro interiore, di un travaglio dell'anima.

Gesù, nell'immagine descrive ciò che precede il Si è il No, cioè quell'essendosi avvicinato al primo figlio ..., e poi al secondo ...

Dio il (Padre) si fa accanto e ti dice: "va oggi"; è un imperativo, ma risuona come una esortazione come una preghiera fatta con tenerezza e non con autoritarismo. Poi aggiunge: "a lavorare nella vigna", in questo caso la vigna ha una priorità assoluta, è una urgenza, è ciò che il padre vuole mettere e condividere anche alla nostra attenzione.

Se la vigna è tutto ciò che è nel suo cuore; se è tutto ciò che Dio abbraccia con amore e sostiene nella esistenza, forse non ci sembra strana tanta insistenza. Una insistenza che non traduce un imperativo dispotico, ma è la sua vicinanza, il farsi accanto, oserei dire siamo in presenza di una tenerezza imperativa!

Ciò che Dio ci chiede (lo chiede a dei figli), è di essere disposti a vivere quell'invito come una priorità che, unica tra tutte, rappresenta la possibilità di trasformarci in "prostitute". Al tempo di Gesù le prostitute sono state quelle che per prime hanno accolto l'appello alla sequela, oggi, quella esperienza è di tutti quei poveri e marginali, che in realtà sono più attenti tra i "figli" a recepire l'invito del Padre.

Di fronte alla richiesta che il Padre ogni giorno ci rinnova, noi come rispondiamo? La quotidianità è lo sospiro della tenerezza imperativa, ma anche dei nostri Si e dei nostri No; il Si ci apre all'esperienza della vicinanza a Cristo, il No ci chiude nel nostro egoismo; così pure, il Si apre alla conversione del nostro egocentrismo per vivere lo scoprirci pubblicani e prostitute ...

sabato 26 settembre 2020

Il mistero iscritto nella realtà creata.

 

Qoelet 11,9-12,9 e Luca 9,43-45

La riflessione sapienziale di Qoelet di giorno in giorno si approfondisce e ci porta alle soglie della eternità. Come in questi giorni di autunno, possiamo fare memoria del susseguirsi del tempo e delle stagioni; come dal progredire della luce del sole; al germogliare dei semi; allo sbocciare dei fiori in un susseguire prodigioso si è giunti prima alla floridezza e poi alla maturità dei frutti, ora nel declinare della luce tutto sembra prepararsi al sonno del freddo inverno. Questo addormentarsi della creazione, si presta a farci comprendere anche le stagioni umane, non con una nostalgia pessimistica, ma con uno spirito di attesa come quello di chi nell'inverno desidera il tepore della prossima primavera con lo sbocciare dei suoi fiori e l'esplosione della vita. Tutto questo avvicendarsi ci porta realmente alle soglie dell'eternità, dove ciascuno lasciandosi alle spalle ogni vanità, si affida totalmente al Creatore. La sapienza di Qoelet è dunque un esercizio esistenziale propedeutico al mistero.
"... e ritorni la polvere alla terra, com’era prima, e il soffio vitale torni a Dio, che lo ha dato. Vanità delle vanità, dice Qoèlet,tutto è vanità." Ma tutto è di Dio, tutto gli appartiene.

venerdì 25 settembre 2020

Il senso del nostro fare ...

Qoelet 3,1-22 e Luca 9,18-22


Con una sorta di litania, Qoelet imprime alla realtà umana una suggestione sacrale, nulla è in sé stesso, nulla è a caso; non sono opposizioni o contrasti, sono compimento estremo di ciò che rappresenta l’esistenza umana. Ma tutto questo resta mistero, al punto che Qoelet si chiede: “Che guadagno ha chi si dà da fare con fatica?”
Domanda che possiamo interpretare, correttamente, come: “che senso ha il nostro esistere e il nostro fare quotidiano?”
La risposta di Qoelet resta avvolta dal mistero, non vuole essere una spiegazione, ma superando la pretesa della ragione, rappresenta un vero atto di fede: “Egli (Dio) ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine.“
L'agire di Dio, comprende ogni atto della nostra esistenza; non solo include, ma il nostro agire partecipa di quello del creatore mettendo così in luce come tutto il creato è epifania di verità e di amore.
Questa esperienza di Qoelet non è molto diversa da quella di Francesco d’Assisi, espressa nel Cantico delle creature. La nostra apertura a ciò che “a suo tempo, Dio ha fatto bella ogni cosa”ci dispone all’urgenza della nostra “conversione ecologica”: essa significa prima di tutto scoprire, nella logica della “ecologia integrale”, che l’altro prima che davanti è dentro di noi, ci abita come emozione e come coscienza, come quell’”altro” senza il quale non può esserci alcun “io”. Da questo approccio si dispiega anche il nostro stare di fronte al creato alla natura, all’ambiente, alla difesa della vita e dei dei diritti umani e civili”.

giovedì 24 settembre 2020

Malinconia come un sogno al mattino ...

Qoèlet 1,2-11 e Luca 9,7-9

Eggià, come un sogno al mattino, di cui resta l'ultima immagine, ma prevale l'inconsistenza, prevale il suo dissolversi. È questa la condizione dell'umanità, come anche l'esserci di ciascuno di noi. È questo il sapore che resta del contatto con la realtà, che ci sfugge, che sembra più distante da noi di quanto noi siamo capaci di interagire con lei. Lo sfondo malinconico di Qoelet, non sembra conciliarsi con l'attesa messianica e con una narrazione della salvezza che si snoda proprio nel vissuto dell'uomo. Qoelet è veramente l'emblema del tentativo umano di leggere sapientemente la vicenda storica che ci accompagna, ma questo tentativo sembra ripiegarsi sulla nostra fragilità, e affida ad un Dio distratto, il grido di un uomo che rimane schiacciato da un pessimismo quasi leopardiano. Credo che questa condizione si addica a coloro che vinti dalla propria ansietà, schiacciati dai compromessi con la vita, non sanno gustare la sapienza che si innalza anche dalla nostra fragilità e miseria. La pazzia di Erode, il rimorso delle sue azioni, non sono forse lo spazio in cui la grazia di Dio propone agli uomini una ulteriore riflessione sulla salvezza che Dio opera con invisibile potenza attraverso il suo Cristo. Le domande che si affacciano nella mente e nel cuore di Erode, sono le domande che possono inquietare, come anche suscitare un desiderio autentico di conoscere Gesù, fino a superare la semplice curiosità e ad approdare alla vera appartenenza del discepolo. Questo processo è la conversione personale e quotidiana che i credenti sono invitati a fare, per giungere a comprendere la sapienza custodita nella realtà, quella stessa sapienza che Qoelet ha percepito, indagato, ma forse non compresa fino in fondo.


mercoledì 23 settembre 2020

Quando la parola illumina il cammino.

Proverbi 30,5-9 e Luca 9,1-6

"Lampada ai miei passi, è la tua parola". Un ritornello che spesso ripetiamo; ma cosa stiamo dicendo? È vero ciò che ripetiamo? Descrive sentimenti e vi dizione dell'animo?

Credo che prima di tutto quelle Parole vogliono esprimere il nostro stare ogni giorno nello sguardo di Dio, consapevoli di appartenergli nell'amore. Non una appartenenza subita per forza, ma una appartenenza riconosciuta e desiderata come indispensabile, nonostante la nostra fragilità, infedeltà e refrattarietà. "La tua parola mi illumina", significa che riconosco, attorno a me la tenebra, e in me rischio le conseguenze del "buio". La luce della Parola è il suo riecheggiare, forse ripetitivo, ma anche rassicurante e consolatorio. Certamente alla Parola di Dio è riconosciuta come vettore per giungere nella vita alle soglie della vera sapienza, e non a una conoscenza intellettuale o un sapere puramente pratico. Tutto è rivolto a valorizzare la vita indirizzandola alla "moderazione", non come mediocrità o rinuncia ad obiettivi alti, ma nel senso di dare alle cose e alla realtà l'importanza che merita, riconoscendone l'essenzialità o il carattere di irrinunciabilità. Povertà e ricchezza del libro dei Proverbi (prima lettura di oggi) sono in parallelo a falsità e menzogna; la ricchezza può condurre all'autosufficienza, la povertà al furto e alla bestemmia. Non darmi l'una e nemmeno l'altra ma dammi il pane di tutti i giorni perché - saziandosi di ciò che mi dai - possa riconoscere la tua vicinanza e il tuo amore. Ecco che la sapienza del cuore è il frutto di un dialogo di amore tra Dio e la creatura, tra Dio e ciascuno di noi. È da da questo dialogo e in questo dialogo che scaturisce la nostra quotidiana appartenenza.

martedì 22 settembre 2020

Il cuore, la vita, il discernimento.

Proverbi 21,1-6.10-13 e Luca 8,19-21

Il libro dei proverbi che leggiamo oggi, è come una successione di perle preziose, ciascuna descrive e rappresenta un universo della vita.

Il cuore come spazio dei sentimenti, dell'agire e della presenza di Dio.
Il discernimento come arte di vedere oltre la superficialità, di ascoltare i rumori di sottofondo e di dare una indicazione secondo verità al nostro esserci quotidiano.
La varietà dei proverbi, non si ascrive alla casualità o a frammentazione, ma vuole esprimere la varietà delle situazioni; l'una accanto alle altre, esse rappresentano la trama della vita. La nostra vita non può non fare riferimento alla sua capacità inclusiva. Ogni esclusione rappresenta una degenerazione esistenziale, una emarginazione e una estraneizzazione da "mistero" che è di per sè ricco, vario e molteplice.
A volte questa molteplicità e varietà spaventa, al punto che il senso religioso si deforma e si trasforma in filtro selettivo, che esclude e irrigidisce il rapporto con la realtà. Ma questo non rappresenta più il senso religioso, cioè un sentimento di attrazione e percezione del mistero ma diviene semplicemente una formalità sacrale che inibisce la libertà personale e la ricerca del mistero.
La sapienza dei Proverbi - ben altra cosa dalla sapienza pratica contadina - ci avverte che tutto l'uomo nelle sue possibilità è anche lui mistero e sacralità, ed è a sua volta manifestazione e rivelazione del mistero di Dio a cui appartiene.

lunedì 21 settembre 2020

Comportarvi in maniera degna della chiamata ricevuta

 Efesini 4,1-7.11-13 e Matteo 9,9-13

Seguire Gesù non è un privilegio o una scelta di alcuni cristiani, seguire Gesù è condizione universale dell'uomo. Liberandoci degli stereotipi religiosi di scribi e farisei (dei credenti di oggi), Gesù è l'immagine dell'uomo nuovo a cui, non solo possiamo ispirarci, ma rappresenta pure la condizione di esistenza della nostra umanità quando si apre all'amore di Dio. Non è forse questa la sequela? Non è forse questo quell'essere chiamati, cioè intercettati dallo sguardo di Gesù e in quello sguardo amati da Lui, amati dal Padre?

Lo sguardo del Signore si focalizza su Matteo - Gesù, vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte -; quello stesso sguardo cerca anche me, e nel momento in cui lo sguardo del Signore (di Dio) incrocia il mio, in me come in Matteo, nasce questa domanda: "Chi cerchi ..., cerchi me?"
La chiamata, la vocazione non è mai un fare qualcosa, una mansione, un incarico; la chiamata interpella ciascuno nel suo essere e nel divenire ...
Matteo, il pubblicano, da peccatore diviene discepolo, da uomo per se stesso inizia a vivere per Cristo e a sentirsi prigioniero del Signore - come dura San Paolo agli Efesini -.
Matteo non ha esitazioni e dal suo interrogarsi: "cerchi me?" Si muove una evidenza: "tu Signore se qui proprio per me!" per guarire quelle ferite che mi hanno allontanato da te, e dal tuo amarmi. Comportarsi in modo degno della chiamata, supera quindi ogni comportamento morale, fino ad esprime una esistenza che sempre desidera essere amata e custodita nell'amore di Dio. Ed ecco che la vocazione è una chiamata continua alla conversione personale nella misericordia del Padre.

domenica 20 settembre 2020

Il regno dei cieli è simile ... come pensa il padre

Is 55,6-9; Sal 144; Fil 1,20-24.27; Mt 20,1-16

Il Lockdown è questa epidemia virale hanno cambiato molte delle nostre prassi e abitudini, ma soprattutto si sono modificati i programmi futuri e i progetti. Parole come distanziamento, mascherina e igienizzazione sono entrate improvvisamente nel lessico e nella quotidianità condizionando vita lavorativa e sociale, ma anche il senso religioso, la vita sacramentale e pure la responsabilità per la "Vigna del Signore". Fino a ieri, questo Vangelo rimandava a una sollecitudine alla responsabilità e alla gratuità del servizio, lasciando trasparire l'originaria volontà di bene del Padre; oggi per tanti non è più così ... Il distanziamento sociale è diventato anche freddezza spirituale; la mascherina che mettiamo in volto è diventata anche un filtro di timore e paura rispetto alla umanità dell'altro. L’igienizzazione se inibisce il contagio, dilaga come una sorta di gel di indifferenza religiosa che in Italia raggiunge quasi il 50% della popolazione. Il virus dell'epidemia ci ha contagiato mettendo in crisi il senso comunitario, le tradizioni e l'appartenenza, come anche la corresponsabilità ecclesiale. Forse eravamo troppo abituati a volere a tutti i costi spiegare la Parabola come quella del Padrone che esce a chiamare operai all'alba, poi delle nove del mattino, alle dodici, come anche alle quindici e alle diciassette ...; per il quale, chi più chi meno eravamo disposti a dare la nostra opera in attesa di una ricompensa che - tutti lo avevamo capito - non sarebbe certo stata una retribuzione economica ... Ma di fronte alla realtà attuale questa spiegazione non soddisfa proprio ... Oltre al rischio di non trovare nessuno in piazza che accetti di lavorare nella vigna. Oggi dobbiamo rimettere al centro cosa è importante per il padrone della vigna: se all'inizio sembra importante la cura della sua vigna ... alla fine ciò che gli sta a cuore sono gli operai, i chiamati a lavorare nella vigna. Superando ogni logica di retribuzione il Padrone ci dice che lui vuole essere segno della generosità più che della giustizia. Prendersi cura dell'ultimo, perché il primo già gli appartiene ... In un mondo segnato dalla epidemia virale, sarebbe miope pensar alla vigna come alla Chiesa o alle nostre piccole o grandi comunità, alle nostre nicchie esistenziali. La vigna è tutto ciò che il cuore di Dio può contenere, e i chiamati sono tutti coloro che si sentono chiamati a servire la verità e a realizzare il bene dell'umanità. Oggi occorre imparare a stupirsi della bontà del padrone della vigna; la sua bontà non è un vezzo o un capriccio ma è lo stile che il padrone vuole condividere con i lavoratori, e che spera, che a loro volta anche i lavoratori vivano tra di loro. La parabola impone una nuova prospettiva di sguardo sulla realtà, il passare realmente e non con finzione, dagli ultimi ai primi, cioè avere nel cuore che siamo "Fratelli tutti". La realtà ci sprona per un cambio di mentalità che è frutto di un esercizio che ci coinvolge tutti; occorre che ci chiediamo se vogliamo vivere in modo ordinario oppure vogliamo essere lo straordinario di Dio …

sabato 19 settembre 2020

1 Corinzi 15,35-49 e Luca 8,4-15

Produrre frutto con perseveranza... Il nostro rapporto con la Parola di Dio, ascoltata, passa anche per la "upomoné", parola greca che traduce la perseveranza, come anche la pazienza, la resilenza (resistenza), il sopportare, il tollerate, il rimanere ecc... La seconda parte della parabola del seminatore del Vangelo di Luca mette in evidenza per ogni condizione del buon seme gettato, la variabile "negativa", ovvero la conduzione in cui la Parola perde di efficacia nella vita di chi ascolta. Oggi di fronte a circa il 50% di indifferenti e al 25% di atei dichiarati (fonte: Gente di poca fede, Franco Garelli, il Mulino 2020; Italia Oggi, del 4 settembre 2020) come non interpretare la realtà alla luce di queso spiegazione che entra nella dinamica della parabola stessa. Nella spiegazione ci sono tre condizioni che sono molto importanti e da notare: - il destino dei semi caduti sulla strada è determinato dal: "diavolo che porta via la Parola dal loro cuore, perché non avvenga che, credendo, siano salvati"; - il destino dei semi caduti sulla pietra/roccia è condizionato dalla impossibilità generare radici vive: "non hanno radici; credono per un certo tempo, ma nel tempo della prova vengono meno"; - il destino del seme caduto tra i rovi è imprigionato nelle spire del mondo e delle sue vanità: "dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano soffocare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non giungono a maturazione". L'ascolto della Parola, non è un semplice atto di intelletto e di ragione, ma è veramente l'esistenza da discepolo che si forma nella prova come ascolto nella fede e attraverso la fede; come perseveranza e resistenza nelle avversità e come discernimento della vita mediante la stessa Parola, per poter giungere a maturazione. Ascoltare quotidianamente, senza stancarsi e perdere la fiducia, è di per sé quell'esercizio di pazienza, ed è la condizione del discepolo che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, cioè disponibile, la custodisce e produce frutto, in forza della sua stessa perseveranza.

venerdì 18 settembre 2020

1 Corinzi 15,12-20 e Luca 8,1-3
Perché seguire Gesù?

Nella lettura continua del Vangelo di Luca, dopo la peccatrice perdonata il Vangelo con una sintesi di poche righe ci mette a conoscenza del contenuto della predicazione di Gesù e del gruppo di discepoli che sono con lui.
Il contenuto: "la buona notizia del regno di Dio". Le parabole, gli incontri, i dialoghi, tutto per Gesù è occasione e condizione per esprimere e manifestare attraverso di se il mistero di Dio Padre che si accosta e avvicina, e che anche già appartiene alla vita di tutti gli uomini. Il regno di Dio, in Gesù, mostra ma sua contingenza, cioè non è un ci tenuto futuro da realizzarsi, ma rappresenta una condizione sperimentabile e concreta, ora. Ecco perché l'annuncio ha una forza di novità inaudita. La parola di Gesù è ciò che è buono e che genera la novità in chi ascolta e accoglie nella vita quella proposta.
Per noi oggi fare esperienza dell'annuncio del Vangelo, della "buona notizia" cosa significa?
La buona notizia non è una questione di numeri o di partigianeria (siamo di più, siamo di meno), ma una questione di vita perché se ho incontrato Gesù e ho capito qual è il suo Vangelo, questa Buona Notizia rende nuova la mia vita, ciò che ho ascoltato attende che con la mia vita dia una risposta. Ed ecco che ogni occasione è buona per essere motivo di annuncio da vivere in modo nuovo e pieno, in comunione e carità, affinché chi ci incontra possa poi dire di aver davvero sentito la Buona Notizia e abbia fatto un’esperienza di incontro con Cristo.
Perché quegli uomini e quelle donne seguono Gesù? Credo lo abbiano fatto perché quella "buona notizia" li interessava parecchio, e hanno sperimentato la novità che portava alla loro vita.

giovedì 17 settembre 2020

1 Corinzi 15,1-11 e Luca 7,36-50
Il profumo di Magdala

Una vera donna peccatrice è questo tipo di donna che si è introdotta in casa del Fariseo (Simone), e che tutti riconoscono come tale. Ma ciò che emerge con estrema evidenza è la consapevolezza della donna di essere una peccatrice. Il suo timido accostarsi senza ostentare ma stando dietro; il silenzio dei suoi gesti, le lacrime miste al profumo; asciugare i piedi con i suoi capelli ..., tutti gesti compiuti con umiltà e amorevolezza. Questa "peccatrice" si accosta a Gesù con tutto il desiderio di poter essere accolta e perdonata, cioè amata; ancora e nonostante il suo peccato e soprattutto nonostante quel giudizio che incombe tutto attorno a lei.
La coscienza del peccato, non rappresenta il tentativo di ristabilire la moralità perduta, ma è prima di tutto invocazione a Dio, affinché con amorevole tenerezza, il Signore si prenda cura delle nostre ferite, e con quello stesso amore ci riconfermi nella fiducia e nella speranza. Fintanto che il peccato è contravvenire alle regole, e si riduce a senso di colpa, non raggiungeremo mia quella lettura personale che riconosce insieme, il peccato, come causa e conseguenza delle ferite della nostra umanità.
Dio non è un "Signore" permaloso che si offende a causa del nostro peccato; se riduciamo Dio a questo ruolo e lo trasformiamo nel contabile della misericordia. Se questo fosse vero, Gesù non ci ha rivelato proprio nessun volto del Padre. Nella casa del Fariseo, avviene molto di più del legale perdono dei peccati. Nella casa del Fariseo, la nostra umanità ferita riceve nell'amore di Dio, la sola e vera consolazione, quella che risana veramente: la salvezza! Il suo peccato non sarà mai più causa di un giudizio di condanna. Forse è per questa incomprensione che i cristiani oggi, non cercano più il perdono e la misericordia nel sacramento, cioè in quel gesto di Gesù che corrisponde al profumo sparso dalla donna peccatrice.

mercoledì 16 settembre 2020

1 Corinzi 12,31-13,13 e Luca 7,31-35
Nostalgie generazionali?

L'amarezza di Gesù, riguardo alla sua generazione che a fatica si converte e che con ancora maggior fatica è disposta a mettersi nella sequela del maestro, risuona anche nella realtà di oggi, in questo nostro mondo, in cui sta tramontando una certa idea di Cristianesimo. Di fronte alla nostalgia dei tempi passati, in cui l'appartenenza di massa sembrava la conferma della forza e della verità della fede; alla dilagante indifferenza rispetto al senso religioso, come anche al crescente ateismo, conseguenza di una fiducia cieca nella scienza; le parole di Gesù ci svelano l'originaria condizione della manifestazione del Figlio dell'uomo. Il messia non si pone mai come conquistatore dei cuori e delle coscienze, ma come domanda aperta nella nostra vita; la stessa domanda che Giovanni affida a due suoi discepoli inviati a Gesù: "Sei tu quello che deve venire, o dobbiamo attendere un altro?" La risposta di Gesù è quella del Messia atteso, è arrivato, di colui che non stravolge ma coinvolge; di chi non impone ma suscita; di chi non obbliga nessuno ma chiede di affidarci a Lui. Come a quel tempo anche noi rischiamo di essere come bambini immaturi che nel capriccio delle loro reazioni, non si accorgono di ciò che accade, dei segni di Dio, del cammino della storia e di come Dio Padre, continua ad agire quotidianamente dentro queste nostre complicate dinamiche esistenziali: "La Sapienza è riconosciuta giusta da tutti i suoi figli!"

martedì 15 settembre 2020

Ebrei 5,7-9 e Giovanni 19,25-27
Siamo tutti sotto la croce ...

È difficile trasformare il pensiero della croce che immediatamente percepiamo anche grazie alle parole del Vangelo. La croce ci riporta tutta la crudeltà e durezza della passione e del morire di Gesù. Essa rappresenta totalmente l'irrazionalità di come avviene la redenzione. Per Giovanni questi versetti sono lo snodo del "tutto è compiuto".
Quando anni prima a Cana di Galilea, alla festa di nozze, Gesù disse a sua madre: "donna, non è ancora giunta la mia ora!", presagiva di già un compiersi di ciò che in quel momento non si comprendeva; in questo preciso istante della passione, "tutto è compiuto ...", e di nuovo, Gesù si rivolge a Maria nello stesso modo: "donna" ... e aggiunge: "ecco il tuo figlio" ...
A Cana di Galilea, Maria chiede a Gesù di farsi così intimo a quegli sposi da rivelare attraverso loro, la gloria del Padre, per cui il segno dell'acqua diventata vino è ben più di un miracolo, esso è segno dell'abbondanza dell'amore di Dio che pervade tutta la vita sponsale. È quell'amore che dilaga nella storia degli uomini che cerca il suo compimento attraverso la vita stessa di Gesù. Sulla croce l'amore prende forma e visione nel corpo stesso di chi è crocifisso. Compimento significa pienezza; significa il momento del dono gratuito. Ciò che Gesù ha amato di più come figlio, è certamente sua madre, è quella donna oggetto del suo amore, ora quell'amore è il dono che il Signore affida a colui che come amico si è sentito amato e che anche ha corrisposto. Maria, in questi versetti di Vangelo, rivive tutto lo strazio della passione ma ripercorre anche tutto il cammino dell'amore che fin da ragazza a Nazareth l'ha riempita di speranza.

lunedì 14 settembre 2020

Numeri 21,4-9 e Giovanni 3,13-17
Festa della esaltazione della Santa Croce

Alcune settimane sono passate da quando un gruppo di ragazzi, nell'Appennino bolognese, una notte hanno fatto scempio di un Crocifisso posto lungo una strada, in un crocevia, come spesso accade di vedere nei paesi di montagna e nelle zone alpine.
Gli atti "vandalici" sono stati ripresi col cellulare e postati su social ... Gesti che stranamente hanno toccato violentemente la sensibilità di chi crede.
Gesti di inaudita ferocia che ci hanno riportato ai racconti della passione di Gesù; quei racconti tante volte ascoltati nelle nostre Chiese, nelle liturgie della domenica delle palme o del venerdì santo.
Oggi in questo giorno della festa della esaltazione della croce, possiamo fare un tentativo, quello di superare tutto l'immaginario di deviazionismo che nei secoli ha rivestito la croce, al punto di farne un simbolo di una religione, per tornare invece alla croce come ultimo spazio di una umanità sfigurata e offesa dalla atrocità e dalla violenza, rispetto alla quale l'unico messaggio che risuona è: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna".
In un mondo in cui l'ateismo e l'indifferenza per il mistero prevalgono sulla fede nel Dio di amore, la croce non rivela più il figlio di Dio nel suo morire per il peccato e della morte dell'uomo; ma ci rivela quanto la nostra umanità ferita può essere culla della più atroce crudeltà e del più cieco cinismo. Quei ragazzi, presi dalla noia, nella più assurda indifferenza si sono accaniti per infliggere a quell'immagine gli stessi tormenti della passione del Signore; solo chi crede e ama Gesù può generare quella compassione che sgorga dal cuore, come amore per ogni uomo che soffre. Oggi il crocefisso non è più di legno o di gesso, ma nella nostra carne possiamo sentire se il nostro amore a Lui, amore per il figlio di Dio, rappresenta un semplice ti ricordo del passato o l'inizio della nostra nuova umanità.

domenica 13 settembre 2020

Sir 27,33-28,9; Sal 102; Rm 14,7-9; Mt 18,21-35a
Come "anche" noi li rimettiamo ai nostri debitori ...

Nella preghiera del Padre nostro che sarà nel nuovo messale oltre al "non abbandonarci alla tentazione", è stata aggiunta la congiunzione "anche", lì dove ci si misura col perdono.
Una espressione che sembrerebbe superflua, ma che, alla luce del Vangelo di oggi non lo è. Quante volte infatti, il perdono che riceviamo non diventa criterio per il perdono che possiamo donare! Quella congiunzione "anche", rafforza palesemente la centralità del perdono nella vita cristiana. Dice che per il discepolo di Gesù c'è proporzionalità diretta tra perdono ricevuto e il perdono come fulcro e condizione delle nostre relazioni.
L'esperienza del perdono è il cuore della comunità cristiana ...
La parrocchia, la Chiesa, i nostri gruppi e associazioni, non hanno motivo di esistere al di fuori del perdono.
Che comunità sarebbe quella dove appena sbagli ti tagliano la testa? Dove appena dici la tua ti giudicano? Dove quando non rientri nei canoni ti scartano e ti mettono al margine?
Sarebbe la comunità dei perfetti! Ma sarebbe la perfezione del Vangelo? No, non lo sarebbe!
Pietro cercava un compromesso per se stesso - forse conoscendosi - ma il Vangelo supera l'esigenza di Pietro, e propone il perdono non in senso di ciò che è giusto, ma nel suo vero contenuto: il perdono non appiana semplicemente le divergenze, non mette a tacere le liti e i rancori; Il perdono genera vicinanza, comprensione, tenerezza; il perdono nasce dall'amore e genera amore.
Il perdono genera in chi lo vive, in chi lo dona, gli stessi sentimenti di Gesù. Superare la giustizia attraverso l'amore all'altro. Ed ecco allora che una bella comunità, non è quella nella quale nessuno sbaglia mai - ma quella dove se si sbaglia -, il perdono permette di crescere e maturare tutti.
Nel Padre nostro diremo: "rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori" ... Ma questo non pone solo una condizione attuazione del perdono che chiediamo a Dio, quella congiunzione pone la necessità che noi ci lasciamo trasformare e convertire dalla logica del giudizio, rinunciando alla nostra giustizia e al nostro orgoglio che ci pone sempre una spanna sopra ai fratelli.
In realtà il perdono funziona come questa breve storia di Bruno Ferero: "Un fedele buono, ma piuttosto debole, si confessava di solito dal parroco. Le sue confessioni sembravano però un disco rotto: sempre le stesse mancanze, e, soprattutto sempre lo stesso grosso peccato. “Basta!” gli disse un giorno, in tono severo, il sacerdote. “Non devi prendere in giro il Signore. E’ l’ultima volta che ti assolvo per questo peccato. Ricordatelo!”. Ma quindici giorni dopo, il fedele era di nuovo lì a confessare il solito peccato. Il confessore perse davvero la pazienza: “Ti avevo avvertito: non ti do l’assoluzione. Così impari”. Avvilito e colmo di vergogna, il pover’uomo si alzò. Proprio sopra il confessionale, appeso al muro, troneggiava un grande crocifisso di gesso. L’uomo lo guardò. In quell’istante, il Gesù di gesso del crocifisso si animò, sollevò un braccio dalla sua secolare posizione e tracciò il segno dell’assoluzione: “Io ti assolvo dai tuoi peccati…”.  Ognuno di noi è legato a Dio con un filo. Quando commettiamo un peccato, il filo si rompe. Ma quando ci pentiamo della nostra colpa, Dio fa un nodo nel filo, che diviene più corto di prima. Di perdono, in perdono ci avviciniamo a Lui.
Ed è proprio questo che non riusciamo a capire della riconciliazione, che se il peccato ci allontana; ci separa e ci rende freddi nell'amore; il perdono riannoda un filo spezzato e raccorcia la distanza da Dio ... Ma se questo è vero nel sacramento, quanto altrettanto vero sarà nella vita di tutti i giorni? E quanta vicinanza sperimenteremo nel perdono che sapremo donarci?

sabato 12 settembre 2020

1 Corinzi 10,14-22 e Luca 6,43-49
L'abbondanza del cuore ...

Signore, Signore ... Quante volte anche io mi sono rivolto a Te con questa invocazione, sperando nel tuo aiuto, cercando la tua consolazione ...
Magari cercavo una risposta che fosse come io la volevo, e forse anche più volte sono stato deluso.
Ogni giorno faccio esperienza di uno stacco tra parola e vita: è qualcosa di diabolico, nel senso che è proprio del diabolico la divisione, la frattura tra ascoltare la parola e non viverla nella quotidianità. Dico di ascoltare, ma poi, non obbedisco, non faccio quella parola ... È così vivo in me la divisione.
Tu mi ripeti anche oggi che la tua parola è da sempre e che non hai smesso di parlare al mio cuore, anzi, le tue parole hanno riempito il mio cuore con sovrabbondanza, ma anche questo a volte non mi è bastato. Non ho colto l'occasione per ascoltare e per lasciare che la Tua parola si ponesse a fondamenta della mia "casa", dei miei pensieri, dei miei desideri, della mia vita. Sto scoprendo che la tua parola è sempre fondamenta, e se non lo è viene travolta dalle acque della quotidiana indifferenza. 
Ma quando anche su una sola Tua parola riesco a mettere un briciolo di attenzione, allora mi sembra proprio che la tua Parola non solo sia fondamenta ma edifichi la "casa" e mi inviti a prenderne dimora. "Signore, Signore, metti in me il desiderio di abitare la tua o parola, di dimorare anche oggi in essa".

venerdì 11 settembre 2020

1 Corinzi 9,16-27 e Lc 6,39-42
Vedere bene ...

"... e allora ci vedrai bene per ..."
Anche le parole di questo Vangelo, risuonano come già conosciute, come anche il ricorrere continuo in un giudizio impietoso sulle pagliuzze altrui e giustificativo, se non addirittura incurante delle travi che portiamo in noi.  
Gesù, si augura che il suo discepolo sia ben preparato, quindi all'altezza dell'insegnamento del maestro ... Obiettivo quindi è il "vederci bene!"
Esiste una cecità che è fatta di giudizi sui nostri fratelli, al punto che il volto dell'altro sparisce, vene completamente occultato, ma non solo, diviene impossibile vedere oltre il giudizio, spesso impietoso, che abbiamo formulato.
Un discepolo cieco, chi potrà mai condurre nella via del maestro, se la via stessa è il suo luogo di inciampo?
Ciascuno di noi, alla luce del Vangelo, può nel desiderio e nella volontà poter vedere bene. Vedere la nostra fragilità come una occasione di conversione e di esercizio della misericordia. Vedere da dentro, e vedere dentro di noi, questo esercizio di introspezione corrisponde alla vita spirituale, alla preghiera, alla meditazione e alla lettura quotidiana delle esperienze alla luce di Gesù. È da questo modo di vedere che le travi diventano pagliuzze, non impossibili da portare, e soprattutto non si trasformano in giudizi senza appello, che fanno tanto male sia a chi li esprime, sia a chi li riceve.

giovedì 10 settembre 2020

1 Corinzi 8,1-7.11-13 e Luca 6,27-38
... come "anche" noi li rimettiamo ai nostri debitori ...

"Amate i vostri nemici (...) ... E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro ... (...) Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso ..."
Quanto incentivi a una vita da vero discepolo. Credo proprio che l'evangelista Luca, volesse imprimere in queste parole del Vangelo tutto l'entusiasmo necessario per superare tutte quelle fragilità e ferite che generalmente anteponiamo all'agire e vivere con carità.
Un Vangelo che non tratteggia una utopia ma una via concreta di umanità, la stessa che Paolo esprime nella prima lettura, cioè la necessità di farci carico della fragilità dei fratelli e per amore di loro; mai agire con quella razionalità che si pone prima della carità.
Amare è una strada che ci conduce realmente ad essere misericordiosi come Dio, proprio perché è un modo di dare compimento e maturità ai sentimenti, ai desideri, alle riflessioni. Amare non è solo quindi un precetto o un aspetto della nostra affettività. Amare coinvolte a tutto tondo il nostro essere e plasma il cuore sia nell'agire con amore sia attraverso il riflesso che l'amore è capace di indurre.

mercoledì 9 settembre 2020

1 Corinzi 7,25-31 e Luca 6,20-26
La beatitudine ...

Quando mi sento beato? Quando percepisco che queste parole del Vangelo sono vere anche per me? 
La povertà di beni materiali, condizione di alcuni; ormai memoria di tempi passati; non ci trasmette più l'urgenza di un bisogno e anche di conseguenza, quella ricompensa che è il regno dei cieli. Ma che cosa è la povertà?
Più che una carenza, un bisogno da riempire o risolvere, la povertà può tradurre la nostra condizione umana, fragile e limitata. Essere poveri significa comprendersi nella propria creaturalità. Povero è chiunque rinuncia alla propria autoreferenzialità e autosufficienza riconoscendo che solo un "altro" può portaci a pienezza.
L'esperienza di povertà mi rende partecipe di un bisogno che va comunque colmato, se infatti rimane una povertà, non può che avvilire l'esistenza: ho bisogno di essere amato e di potermi donare. Gesù di fronte alla povertà, mette il "regno dei cieli"; ma che cosa è il questo regno dei cieli? Generalmente viene spiegato è rappresentato per immagini, per cui non è certo così facile riuscire a codificarlo. Certamente il regno dei cieli non è un surrogato ai nostri bisogni, ma sia nei contenuti che nelle immagini vuole esprime quella costante e permanente vicinanza di Dio Padre che porta a dare significato alla nostra esistenza. Ecco che povertà e regno traducono una dimensione necessaria al discepolo di Gesù, non tanto categorie sociali. È in questa dinamica di compimento che si genera la beatitudine del Vangelo: una vera felicità esistenziale. 

martedì 8 settembre 2020

Michea 5,1-4 e Matteo 1,2-16.18-23
Festa della Natività di Maria
Generazione ...

Generare: dare la vita a un essere della stessa specie, detto di uomini, animali, e per estensione anche di piante.
È questo il significato più diffuso del termine generare. Nel Vangelo della festa della nascita di Maria, il generare ricorre come parola che si incatena in una genealogia che unisce Gesù fino ad Abramo, e coinvolge in questo anche colei che ha generato il figlio di Dio. Il generare ci riconduce risolutamente ad una condizione di appartenenza al genere umano. Non siamo di fronte a delle mitologie o a fantasie per infiorare nobilmente l'origine di un culto religioso. Generare è dare la vita, trasmettere ma vita umana; è un mistero la vita essa sboccia come novità e bellezza proprio nell'atto del generare. Dio creatore, non si limita a creare dal nulla, ma nella possibilità della creatura, di generare la vita dal nulla, pone la possibilità di offrire e inserire nel tempo la sua stessa vita: il suo unico figlio.
Per Maria, generare Gesù, corrisponde alla pienezza della sua femminilità e maternità; per ciascuno di noi generare rappresenta il compimento del meglio della nostra vita, della nostra esistenza. Generare amplifica il contenuto della vita, alla realtà della fede (generare nella fede in Cristo); alla realtà dell'amore (generare un sentimento di amore); generare nella verità (generare al sapore delle cose vere); ecc... Non si genera solo carnalmente come atto biologico, ma la generazione rappresenta anche l'espressione del generare di Dio Padre in noi, in tutte le sue possibilità e manifestazioni di cui la nostra umanità è capace.

lunedì 7 settembre 2020

1 Corinzi 5,1-8 e Luca 6,6-11
Che cosa possiamo fare a Gesù?

Corromperemo uno dei suoi che lo tradirà e ce lo consegnerà, lo cattureremo e da quel momento faremo di lui ciò che vorremo. Lo inchioderemo a una croce e lo faremo morire come prescrive la Legge, per tutti coloro che non rispettano la legge di Mose ...
Lo metteremo in croce il giorno prima del sabato, così vedremo chi è Signore del Sabato?
Forse è questo il pensiero che è passato per la mente degli scribi e dei farisei. Un pensiero che sarebbe stato la loro vendetta, e anche il modo di riappropriarsi della legge e di tutti i precetti, per imporli a tutto il popolo. Il Sabato è sempre più lo spazio del silenzio e del riposo di Dio; l'uomo nella sua solitudine e nella sua aridità, che lo rende paralizzato, si trova al centro del Sabato; su di lui lo sguardo di Gesù... Dalla croce il Signore vede l'orizzonte all'orizzone la sera e già le prime luci del Sabato, e anche il protagonista di questo "Sabato": l'uomo.
"Domando a voi: in giorno di sabato, è lecito fare del bene o fare del male, salvare una vita o sopprimerla?" Quel Sabato, come in ogni Sabato, il silenzio si riempie dello sguardo di amore e misericordia di Dio, e l'aridità dell'uomo viene toccata e redenta. La salvezza, il bene, il dono della vita, si sprigiona nel sabato. Il riposo di Dio non è certo inattività e immobilismo, ma pieno compimento dell'opera della creazione: la gioia della salvezza. È con questa consapevolezza che dobbiamo vivere il nostro "giorno del Signore", cercando il contatto con Gesù, e liberando il cuore da tutto quel "fariseismo" che è la nostra aridità.

domenica 6 settembre 2020

Ez 33,1.7-9; Sal 94; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20
Un amore scontato è la soluzione innovativa!

Dal nostro metterci alla sequela di Gesù; dalla nostra professione di fede in lui; dal nostro prendere la croce e seguirlo, cosa nasce? Che cosa accade?
Un discepolo di Gesù non è semplicemente un battezzato, e neppure una buona persona con un discreto senso religioso. L'ascolto del Vangelo, il confronto con la vita di Gesù; nutrirci del suo corpo e del suo sangue; lasciare che la misericordia di Dio curi le nostre ferite, in realtà, tutto questo rappresenta lo spazio stupendo e straordinario in cui la nostra vita incontra la vita di Gesù, la vita di Dio. È in questo spazio che si rende attiva la grazia di fronte alle nostre tante inconsistenze.
Ciò che, in noi, viene toccato dalla vita di Gesù, sono le nostre relazioni, sono i rapporti affettivi; questo ancor prima di ogni altra struttura spirituale o di qualsiasi altro pensiero o sentimento.
Noi siamo fatti di relazioni, vibriamo per gli affetti che ci hanno generato fin dal nostro principio; noi siamo il frutto dell'intreccio spesso faticoso e complicato della nostra vita con quella del nostro prossimo. Quante energie mettiamo in gioco per gestire tali relazioni "complicate", o forse è meglio dire complesse! Fatiche che esprimono dissapori e dissensi, in famiglia, tra marito e moglie; al lavoro tra colleghi, nel gruppo di amici e molto spesso anche nelle esperienze di comunità. In tutto questo "guazzebuglio", il Vangelo non ha dubbi nel proporre e suggerire itinerari comunitari come unica soluzione e via di uscita, dallo stallo umano delle nostre durezze e incomprensioni; il superamento delle crisi, non è un compromesso o un accordo ma è frutto di amore e di carità. Se umanamente siamo vuoti di amore, ogni sforzo, ogni tentativo o soluzione ci sembrerà impossibile. Ecco perché Paolo, continua a ricordarci quale sua il fondamento di tutto: "Amerai il tuo prossimo come te stesso. La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità".
Ecco allora che il Vangelo scende nel particolare per svelare le vere e necessarie intenzioni del nostro cuore.

sabato 5 settembre 2020

1 Corinzi 4,6-15 e Luca 6,1-5
Il Signore del Sabato ...

Che cosa è questo Sabato? Per un ebreo il sabato rappresenta l'espressione piena del terzo comandamento, quello che riguarda la santificazione del giorno del riposo. Dal riposo di Dio - nel settimo giorno della creazione - al risposo dell'uomo che partecipa alla stessa opera del creatore. Ma il riposo significa anche le proibizioni che la legge impone alle attività umane; come anche tutta una liturgia e ritualità che caratterizza il giorno di sabato. È all'interno di questi connotato che infrangere il sabato è un vero sacrilegio, una vera profanazione della volontà di Dio. Non è quindi una domanda fuori luogo e tantomeno frutto di mentalità bigotta, quella di alcuni farisei: "Perché fate in giorno di sabato quello che non è lecito?"
Ma Gesù, il figlio dell'uomo, è Signore del Sabato! Santificare il giorno del riposo non può essere semplicemente l'obbedienza firmale a un precetto. Il Sabato è Sacro, non per la conseguenza della legge, ma per se stesso. Sembra quasi riecheggiare in queste righe di Vangelo, una polemica attuale circa gli obbligo gli del precetto festivo della Messa.  Forse anche noi scadiamo in un certo legalismo e in una formalità che svuota il giorno della festa della sua vera sacralità. Perché il sabato è sacro perché è il riposo di Dio. In questa prospettiva che cosa è ogni uomo nel sabato? L'umanità è apice della creazione (sesto giorno) e si affaccia nel suo esistere proprio nel giorno del riposo di Dio. L'umanità appena creata entra nel riposo di Dio, che la legge, o i nostri precetti, trasformiamo in alcune restrizioni come quelle vissute dai farisei, e non in in una festa che celebra la gioia del creatore. Gesù non è il signore della ribellione, è invece quel figlio amato di Dio benedetto, che ci porta a comprendere la bellezza dell'opera del Padre che si rivela nell'operare dell'uomo. Allo stesso modo, la festa del sabato appartiene all'uomo. Allora l'obiettivo di Gesù non è obbedire a un precetto umano, ma è quello di farci parte della sacralità del sabato, e di darci la capacità di santificare con la nostra vita, il giorno del riposo.

venerdì 4 settembre 2020

1 Corinzi 4,1-5 e Luca 5,33-39
Non si digiuna con lo Sposo ...

La famigliarità di Gesù con i pubblicani e i peccatori è vista con estremo sospetto! Può un "uomo di Dio" frequentare uomini e donne di così scarsa moralità e dignità? Perché mangiare alla loro mensa? Gesù risponde che lui vuole convertirli, cioè mettere nel loro cuore la vera nostalgia di Dio.
In quella fraternità, e con l'amicizia, Gesù vuole fare capire loro che Dio si prende cura delle loro ferite e che non si preoccupa del giudizio per il peccato; ma per amore, vuole ma loro salvezza. 
Questo Dio, rivelato da Gesù, vissuto nella quotidianità di quel tempo e insieme a quelle persone, rappresenta un contrasto fortissimo, quasi incomprensibile sia per chi virtuosamente vive ogni adempimento della legge, sia per chi nella propria ipocrisia fa della morale il paravento delle proprie inconsistenze.
Gesù rappresenta un volto di Dio sconosciuto ai più; rappresenta al vivo un Padre che ama e che per amore dona la sua vita ai propri figli. È un Dio libero dai schematismi, da rituali elaborati da una religiosità umana che finisce per identificare Dio con una liturgia o con le leggi di una morale che conserva sé stessa.
È questo il rischio di ogni discepolo anche oggi, quello appunto di non sapore gustare l'abbondanza che rappresenta Gesù (abbondanza di pane e di pesci), trasformando l'incontro col Maestro di Galilea in uno spazio di rigidità morale in cui all'abbondanza si sostituisce il digiuno. Ma, "Potete forse far digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro?"

giovedì 3 settembre 2020

1 Corinzi 3,18-23 e Luca 5,1-11
Un Cristo abbondante ...

Come nella moltiplicazione del pane e e dei pesci, il segno passa dalle mani di Gesù a quelle dei discepoli, e sono proprio questi i primi testimoni dell'abbondanza che basta a saziare tutti, così nella pesca miracolosa, sono sempre i discepoli, in particolare Pietro e i suoi soci, Andre, Giovanni e Giacomo, a vedere con i loro occhi come quella pesca riempie le barche oltre ogni aspettativa e ogni possibilità.
È importante che chi segue Gesù viva l'esperienza che Gesù "riempie", "sazia", "porta a pienezza" prima di tutto la vita stessa del discepolo, di colui che sceglie la sequela di questo maestro di Galilea.
È solo questa comprensione del mistero che permette di legare a Lui ogni aspettativa, ogni desiderio, ogni attesa e soprattutto di percepire il mistero di Gesù come il "Figlio del Dio vivente"! L'abbondanza suscita lo stupore in tutti i pescatori delle due barche:"Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone".
Lo stupore non solo di fronte al numero impressionante di pesci, ma soprattutto di fronte a Gesù. Ma chi è questo maestro, che attrae gli uomini, come attrae i pesci?
Come oggi ciascuno di noi può rileggere questa pagina vangelo? Come le sue parole sono causa di abbondanza?
Provo a percepire una provocazione a una certa inerzia che oggi vive la Chiesa, come anche le singole comunità. L'inezia a causa di una pesca (pastorale) faticosa e senza esito: "abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla". Una esperienza aggravatasi anche in questo tempo di epidemia virale. Ma sembra proprio questo lo spazio in cui Dio agisce; cioè Dio opera nello spazio della nostra resa: "I pescatori erano scesi e lavavano le reti"!
È questo lo spazio di fragilità nel quale Dio prende l'iniziativa è diviene il protagonista di ogni abbondanza: il progetto di salvezza non esaurisce la propria possibilità redentiva.

mercoledì 2 settembre 2020

1 Cor 3,1-9 e Luca 4,38-44
Di fronte alle nostre fragilità ...

All'immagine del Messia predicatore, il Vangelo di Luca, accosta questa giornata a Cafarnao, dove dopo aver "predicato" in Sinagoga, Gesù, si confronta con le fragilità umane. La suocera di Pietro accosta Gesù alle fragilità dei nostri legami e dei nostri affetti. Le folle, o meglio "tutti quelli che avevano infermi affetti da varie malattie li condussero a lui", sono la moltitudine dell'umanità soffrente che riempie il cortile della casa e delle stradine attorno. La fragilità non è mai una esperienza limitata e circoscritta, essa appartiene a tanti, è di tutti. La fragilità tocca anche il nostro profondo fino ad essere espressione di un male che prende dimora nel nostro esistere. Non c'è dubbio, la giornata di Cafarnao non è all'insegna dell'idea del trionfo del Messia, ma alla esperienza di fragilità.
Gesù, non sfugge alla fragilità, anzi, le fragilità sono lo spazio privilegiato dell'annuncio del Regno dei cieli. Questo quasi a suggerirci che il Regno dei cieli non è una cosa da intellettuali, o da scribi e maestri della legge, ma riguarda l'uomo nella sua possibilità di redenzione, che prima di tutto è liberazione dal male; da ogni espressione ed esperienza di male. Ecco che la giornata di Cafarnao non è una semplice esperienza taumaturgica, ma diviene profezia di liberazione e redenzione.


martedì 1 settembre 2020

1 Corinzi 2,10-16 e Luca 4,31-37
Il Santo di Dio!

Santo; se sfogliamo un dizionario troveremo questa definizione: ... equivalente di sacro, riferito a ciò che è in rapporto con una realtà diversa da quella naturale e umana (opposto quindi a profano) ... o di ciò che, per comune consenso degli uomini, è venerato religiosamente o è considerato degno di venerazione. È proprio questa rigidità formale della santità che ci distoglie dal comprendere questa espressione riferita a Gesù, come qualcosa che è invece estremamente vicina e che ci riguarda profondamente. La Santità di Dio, in realtà è la sua più radicale vicinanza. L'essere Santo non significa separato e distante dalla vita degli uomini, ma possiamo e dobbiamo invece intenderla come vicinanza del mistero alla vita degli uomini.
"Che vuoi da noi, Gesù Nazareno?" Dice l'uomo posseduto dal demonio; è proprio il male che rivela e manifesta una umanità ferita e bisognosa di essere riportata nella condizione originale: scelta, voluta, amata dal Padre.
Ed ecco che "il Santo di Dio", che è Gesù viene ad abitare a Cafarnao, città del lago, dove avrà più impulso l'annuncio del regno dei cieli. Dio cerca l'interlocutore per eccellenza; meglio ancora quel Dio Padre che è all'origine dell'esistenza, si ricorda dell'uomo - opera delle sue mani - e in Gesù realizza quella vicinanza che traduce tutta la Sua fedeltà, il Suo amore la Sua predilezione. La Santità che è mistero stesso di Dio cerca la nostra umanità ferita, perché la nostra umanità non può esiste (essere una umanità viva) al di fuori della Santità del Padre.