venerdì 22 ottobre 2021

Inclinazioni e fragilità

Romani 7,18-25 e Luca 12,54-59


Quante volte, anche nella nostra esperienza abbiamo vissuto il "dramma" che Paolo descrive in modo così chiaro e risoluto: "Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?" Ciò che ci fa male, ciò che è distruttivo, è l’idea di dover essere in un altro modo; che, per essere accettati da noi stessi, dagli altri e da Dio, dovremmo essere giusti, puri, senza peccato. Con una immagine interessante, vorremmo essere semplici «ostriche vuote», senza corpi estranei. Dei «puri» insomma. Ma questo non è possibile. E anche qualora ci considerassimo tali, ciò non significherebbe che non siamo mai stati feriti, ma solo che non lo riconosciamo, non riusciamo ad accettarlo, che non abbiamo saputo perdonarci e perdonare, comprendere e trasformare, avvolgere le nostre ferite con quella madreperla, che fuori di metafora è l’amore, rimanendo semplicemente poveri e terribilmente vuoti.
Cos’è una perla? È un qualcosa nata dal dolore. Infatti nasce quando un’ostrica viene ferita. Quando un corpo estraneo – un’impurità, un granello di sabbia – penetra al suo interno e la inabita, la conchiglia inizia a produrre una sostanza (la madreperla) con cui lo ricopre per proteggere il proprio corpo indifeso. Ecco che alla fine si sarà formata una bella perla, lucente e pregiata. Se non viene ferita, l’ostrica non potrà mai produrre perle, perché la perla è una ferita cicatrizzata.

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