venerdì 29 marzo 2019

Osea 14,2-10 e Marco 12,28-34
Un amare impossibile ...

Certe espressioni della nostra spiritualità sono ormai senza senso, frasi senza una vera risonanza nella vita dei più, ad esempio, "Amarai Dio con tutto il cuore ..."; "Gesù è morto per noi ..."; "Gesù ha dato la sua vita per i nostri peccati" ...
Nella normalità dell'aridità spirituale, il cuore di tanti "credenti" (meglio dire, battezzati) si trova alle prese con la latitanza da Dio; siamo realmente in un "esodo al buio"!
Come è possibile amare Dio, se per me quel Dio è muto, incapace di comunicare la sua parola, escluso da ogni esperienza di vita!
Chi ha chiesto a Gesù di morire per me? ... Per quale motivo dovrebbe morire? Per i miei peccati? Ma quali ..., e cosa è poi questo peccato ... È l'immoralità del mio agire? Ma chi lo stabilisce? La mia coscienza non mi rimprovera nulla, così anche il mio cuore naviga a vista tra i sentimenti e le esperienze ...
Tutto questo fa parte del relativismo dell'esperienza del credere. E siamo così completamente immersi in questo travaglio epocale in cui ciò che non trova senso è proprio la parola "amare". L'amore non si comanda e tantomeno si insegna ad amare: sarebbe solo una idea ... Ciò che emerge è che all'amore si lega il senso religioso.
Venendo meno il senso religioso non ci si può scandalizzare della distanza che l'uomo di oggi metta tra se e Dio, al punto che nemmeno la reciprocità dell'amore umano resiste nella scala dei comandamenti, ossia dei valori esistenziali: il prossimo non è da amare, dal prossimo ci si difende; il prossimo se non è nemico è per lo più l'antagonista, il concorrente.
La pagina del Vangelo, parte da una condizione esperienziale privilegiata, parte da una domanda di un uomo che vive in una tensione spirituale ... La tensione di chi si riconosce nella fede di un popolo, della fede nei padri, in quell'ASCOLTA Israele che è il presupposto dell'amare Dio, del tornare a Lui ...
Qual'è il fondamento del comandamento dell'amare Dio e il prossimo? Non è forse lo sperimentare la propria insufficienza? Una incapacità che ha bisogno dell'altro per dare compimento al desiderio/bisogno di amare. Non è forse riconoscere l'incolmabile solitudine esistenziale che si riconosce al tramontare della vita?
Giustamente meditava Agostino: "Ci hai fatti per Te e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te" (Le Confessioni, I,1,1). Per amare, sempre, occorre rientrare nel nostro cuore nel nostro esistere. Il "male" di oggi si chiama fuga da sé stessi!

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