domenica 21 marzo 2021

Il chicco ancora muore ... nel dono di noi stessi

Ger 31,31-31; Sal 50; Eb 5,7-9; Gv 12, 20-33

La traduzione letterale dal testo greco direbbe: "c'erano ora, alcuni greci, fra i salenti per adorare alla festa. Questi dunque si avvicinarono a Filippo, quello di Betsaida di Galilea e domandarono a lui dicendo: Signore, vogliamo Gesù vedere".
"Saliti per adorare" è ben di più che "saliti per il culto". È proprio la parola adorare che mi attrae e affascina: questi greci sono venuti alla festa per esprimere tutto il loro amore a Dio (al dio del padre Abramo) in quelle modalità che la venerazione dei luoghi e la preghiera nel Tempio promettevano. Ma questa adorazione, questo amore, che si esprime quasi nell'atto di voler baciare, non si contiene nei gesti religiosi e di culto, ma per Giovanni (il discepolo amato) diviene il desiderio di vedere il volto di Dio, l'oggetto di tanto amore: "vogliamo vedere Gesù".
La risposta di Gesù è disarmante: "Per vederlo, occorre che ti immergersi nelle sue parole, devi lasciale risuonare con la loro evidenza; esse non sono una provocazione, esse sono la voce del suo cuore".
Ed ecco che Gesù ci mette di fronte ad alcune immagini e situazioni.
Se il chicco di grano non muore resta solo, se muore produce molto frutto. Una delle
 frasi più celebri e più difficili del Vangelo. Il "se muore" è molto pesante sul nostro cuore, e oscura tutto il resto. Ma se ascoltiamo la vicenda del chicco, il peso viene meno; se osservi, vedi che il chicco in realtà è un forziere di vita che lentamente si apre. Quando il chicco muore, in realtà la "vita non gli è tolta ma trasformata": Ciò che il bruco chiama fine del mondo tutti gli altri chiamano farfalla.
Ciò che la parabola sottolinea come evento principale non è però la morte del seme ma  è quel "produce frutto". Ecco allora che Giovanni ci racconta come nel suo morire innalzato sulla croce, Gesù dà il meglio di sé, produce il frutto della nostra salvezza, della nostra vita eterna, che si genera proprio nel darsi della sua vita sulla croce. Ecco perché Gesù, nella pagina di Giovanni, non si ferma alla parabola ma passa subito all'immagine dell'innalzamento cioè della croce. La croce è la piena evidenza di come si dona la vita che produce frutto. Una immagine che suscita in noi paura, dubbio, ma è anche l’immagine più pura per vedere il volto di Dio. Per vederlo devo solo inginocchiarmi ai piedi della Croce, e fissare lo sguardo sul crocifisso, e riconoscere che prima di tutto quella è l'immagine di un uomo crocifisso, che è il figlio di Dio, che ha messo liberamente la sua vita sulla croce; ma ci è stato appunto come uomo, con tutte le fragilità e limitazioni umane. Cristo sulla croce era davvero un uomo, oltre ad essere il figlio di Dio, per questo ci sentiamo più vicini a lui, una vicinanza che ce lo fa vedere al vivo.
In questo tempo in cui tutto sembra avverso, ci è chiesto di vedere Gesù innalzato sulla croce, nella sofferenza di chi perde il lavoro, di chi è segregato, di chi è malato in ospedale, di chi muore nella solitudine. Non è un tempo  privo di Dio, anzi Dio si mostra proprio quando accettiamo di poterlo vedere anche nel limite e nella fragilità. Ancora una volta la realtà diviene spazio di una rinnovata profezia del seme: "è necessario che muoia perché porti frutto". Anche questa è l’ora decisiva, che inaugura un nuovo tempo per la fede della Chiesa e per la nostra fede; per l’adorazione di Dio; come anche un tempo nuovo per la salvezza dei morti e dei vivi.

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