venerdì 22 maggio 2020

Atti 18,9-18 e Giovanni 16,20-23
Che cosa è la nostra gioia?

La tristezza a cui anche ieri facevamo riferimento, si manifesta nella sofferenza. Essa appartiene a tutti gli uomini. Forse non sappiamo spiegarlo, ma riconosciamo che una qualche sofferenza accomuna ogni essere umano. La nostra natura porta in sé stessa la trama della sofferenza come pure la trama della gioia.
A guardare bene, lo dice anche Silvano Fausti Sj, non tutte le sofferenze umane sono uguali, alcune sono mortifere in sé stesse, altre portano a una crescita dell'umano. Sì! Alcune sofferenze portano alla conquista della libertà, dell'amore, della vita, della gioia ... Sono sofferenze necessarie, perché l'umano è un essere "finito" che aprendosi nel desiderio all'infinito, percepisce sempre una qualche mancanza: questo è sofferenza, è tristezza. All'uomo manca l'infinito, l'amore eterno, che riempie le profondità del suo abisso. Non bisogna temere ma sofferenza, essa è parte del cammino per giungere alla gioia. Ma che cosa è allora questa gioia?
"Il verbo si è fatto carne e ha preso dimora in noi". Dal versetto 14 del Prologo di Giovanni inizia il riconoscimento della gioia. Quando il nostro abisso esistenziale è dimora del verbo che si fa carne, anche nella mia carne; allora non esiste più né venerdì santo e neppure il silenzio di Dio del sabato santo. La gioia sarà l'intima percezione del Dio incarnato e del suo amore per me; il suo dimorare nella profondità del mio abisso di senso, questa esperienza posso dire che è "la vera gioia" che riempie e trasfigura ogni tristezza e il limite della sofferenza.
Tristezza e gioia non appartengono alle categorie morali e della legge, della bontà e della giustizia; ma traducono il travaglio di chi nasce dall'alto, per forza dello Spirito di Dio.

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