martedì 26 maggio 2020

Atti 20,17-27 e Giovanni 17,1-11
Il corpo, la gloria e la vita eterna ...

Essere nel modo per Gesù ha significato vivere nella carne, la vicinanza all'uomo e alle realtà del mondo. Pensando a Gesù figlio di Dio, fatto uomo nella carne, nel grembo di Maria, percepiamo quel senso di unità tra mistero di Dio e creazione, che ci porta a sentire quasi fisicamente l'esserci di Gesù nelle cose del mondo, il suo esserne parte e partecipe.
La morte e la risurrezione non rappresentano uno strappo, una discontinuità, rispetto a questa relazionalità strettissima, ma sono la novità: la possibilità della carne di Gesù di essere non solo nelle realtà del mondo ma di essere parte delle realtà del cielo.
Non è facile per noi questo modo di porci, per noi che viviamo il tempo come vita e la morte come fine di tutto.
Ciò che Gesù introduce nella realtà del mondo, attraverso la sua morte e risurrezione, non è un avvenimento straordinario - pur anche salvifico - ma è la pienezza della manifestazione della gloria di Dio Padre attraverso il segno della carne.
La nostra corporeità, la nostra carne, non è la materia nel suo limite fisico, ma rappresenta il modo in cui l'immagine di Dio è declinata nella creazione. Sarebbe quindi un grave errore declassare la carne rispetto a una qualsiasi rilevanza dello spirituale. 
La morte di Gesù rappresenta la più alta manifestazione di come la carne, veicola il mistero della salvezza attraverso il sacrificio/offerta della vita. Questa carne umana è capace di un amore così grande da superare ogni visione strumentale del corpo.
La glorificazione che Gesù chiede di sé al Padre, in questo capitolo 17 non va quindi colta come prefigurazione della risurrezione spirituale del Cristo, ma come presenza del mistero eterno di Dio attraverso la carnalità del Figlio.
Troppo moralismo ha impoverito la visione integrale della corporeità umana; ma non è disprezzando il corpo che si eleva lo Spirito, così infatti, si avvilisce il mistero e la gloria del Risorto.

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